58. Nelle pagine e nelle lettere di antiquata finezza, e per questo belle, per non dire confortanti, di Cesare Angelini (1886-1976) che ho letto non ho trovato finora moltissimi monaci; un po’ di abbati, «lodatissimi per pietà e dottrina», i dodici monaci biondi che seguirono Colombano e arrivarono al Lambro, qualche altra comparsa sfumata sullo sfondo: lì troverò, anche se forse gli sembravano un po’ lontani, come Benedetto che, salvata l’Italia e la civiltà, finì «in monastero a scandir salmi o a chiosar codici» (ma «creando tuttavia quelle correnti spirituali che non paiono ma salvano il mondo»). Ho già trovato però un mirabile testo dedicato alla Certosa di Pavia, pubblicato nel 1970 nella raccolta Questa mia Bassa1.
Mirabile per il tono di ferma malinconia, derivato da paziente frequentazione unita a una erudizione discreta, che sa di cara memoria più che di studio, per il ricordo conservato di una visita estiva con Ada Negri (e del «nostro pane e della nostra frittata» con cui «s’andò a fare un po’ di cena in un alberguccio poco discosto, tra i campi e i fossi»), per lo sguardo sereno che accompagna le informazioni («guardo i monumenti come guardo gli alberi, solo per rallegrarmi»), e per un’improvvisa apertura sul chiostro grande, la cui immagine bucolica cede a poco a poco il passo a una considerazione tanto vera quanto appena accennata:
«Dai portici… si passa al chiostro grande: un gran campo che secondo le stagioni, s’annunzia con sapore d’erba o di fieno, circondato con alti portici a vela e dove, staccate una dall’altra, s’allineano le ventiquattro celle dei monaci. Piacerebbe vederne uscire uno da una. Ma da troppo tempo la Certosa, che pure è ancora piena della loro presenza, è senza certosini; fuor quello dipinto (e par vivo) dal pio Bergognone su una parete interna del tempio, nell’atto d’affacciarsi a una finestra a dare il benvenuto ai visitatori che arrivano da ogni paese.
«E qui, tacendo la bellezza un poco provocante dell’arte, la Certosa torna natura; e nel gran silenzio, che è lo spazio in cui l’anima ha bisogno, il visitatore ritrova il senso intimo e religioso del monumento: cella, coelum, secondo la parola di Caterina da Siena.
«Anni fa, sull’architrave d’una cella lessi un motto propiziatorio: Pax multa in cella. E, sotto, scritta in un secondo tempo, un’altra parola che pareva rispondere alla prima: Si est in corde. Scritta da qualche visitatore impietoso o dalla stessa mano dell’ospite? E, per un momento, nel balenio dell’oscuro dramma del monaco recluso, mi parve che tutta franasse la grande serenità del monumento.»
Per una curiosa coincidenza, poco prima avevo letto una frase di un eremita contemporaneo che all’improvviso è risuonata in singolare consonanza con le parole di Cesare Angelini. Un brevissimo appunto di Frédéric Vermorel che si mette in guardia dall’«idolatria dei luoghi»: «La vocazione non coincide mai con il luogo, neppure per il monaco benedettino che fa voto di stabilità. La vocazione è sequela, sradicamento»2.
La bellezza dei luoghi monastici, il fascino delle valli remote, delle isole, del chiostro grande della Certosa di Pavia e di tutti i chiostri, della cella: tutte cose che rinfrescano solo il visitatore in fuga dal caos cittadino o segni di qualcos’altro?
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- Cesare Angelini, Questa mia bassa (e altre terre), All’Insegna del Pesce d’Oro 1970, seconda edizione accresciuta 1971
- Frédéric Vermorel, Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo, prefazione di G.M. Bregantini, Edizioni Terra Santa 2021, p. 136.
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Grazie a Mortimer Potts