google.com, pub-1908550161261587, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Pensieri sparsi: 2012

martedì 20 novembre 2012

20.11.2012 - Fermiamo il massacro.
Report e testimonianze da Gaza

Queste sono parole che non sono in tema con quello che di solito pubblico su questo blog.

E' un post che non avrei mai voluto scrivere, ma dopo aver letto la mail ricevuta da un'amica che vive da vicino questi orrori di guerra e soprattutto le agghiaccianti testimonianze che mi allega non posso non pubblicare tutto integralmente...

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Ecco il report sulla tragica evoluzione dell'offensiva militare israeliana degli ultimi giorni, e soprattutto con le testimonianze dirette da Gaza. Realizzato dai cooperanti di alcune delle NGO italiane che lavorano a Gaza.

In queste ultime ore siamo allarmati per la richiesta della IDF di abbandonare tutte le case della striscia per imminente attacco di terra.
Dove vanno 1.800.000 persone??????
Non ho parole
Meri

Col cuore e la testa a Gaza.
Adriana
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18.11.12 colpi artiglieria dal mare, attacco ai media, droni e F16 in cielo
(video di Adriana Zega)

20 Novembre 2012

Fermiamo il Massacro.
Testimonianze dell’attacco deliberato e indiscriminato dei civili a Gaza.

Siamo al settimo giorno dell’attacco più violento e brutale condotto da Israele dall’operazione Piombo Fuso. Continua il massacro dei civili e i bombardamenti sulla popolazione di Gaza imprigionata dall’assedio illegale. A Gaza i boati dei bombardamenti scandiscono le giornate e le notti insonni della gente rinchiusa nelle case. Il cielo è invaso dal rumore costante dei droni e dei caccia F16 che sorvolano in continuazione tutta la Striscia con il loro carico di distruzione, e dal mare arrivano i colpi dell’artiglieria delle navi militari.

L’aviazione israeliana ha condotto oltre 1600 bombardamenti, centinaia gli spari dalle navi della marina militare. A Gaza, dove metà della popolazione ha meno di 14 anni, colpire i civili significa colpire i bambini. Sono 117 le vittime del massacro dei palestinesi a Gaza, la gran parte civili, tra questi almeno 25 bambini sotto i 16 anni. Oltre 1000 le persone ferite, tra cui più di 252 bambini.

Dal 18 novembre, quinto giorno dell’escalation, l’esercito israeliano ha intensificato gli attacchi deliberati sui civili colpendo sempre di più le case, le moschee, i veicoli, i giornalisti e gli organi di informazione. Il numero dei morti è aumentato in maniera esponenziale. Nei primi quattro giorni dell’offensiva le vittime erano state circa 40, mentre negli ultimi due giorni sono già oltre 80 le persone uccise.

Nella notte del 18 novembre sono stati colpiti gli uffici dove sono concentrati i principali media palestinesi a Gaza, con il ferimento grave di 6 giornalisti, di cui uno ha perso la gamba.  
Anche ieri 19 novembre è proseguito l’attacco alla libertà di informazione. La Shuruq tower, che ospita Aqsa TV e altre emittenti televisive straniere, ha subito due attacchi in 24 ore. Due persone sono rimaste uccise, due cameramen e un corrispondente del canale saudita Al-Arabiya sono stati feriti.


E’ stata colpita anche un’automobile che riportava la scritta Press, per fortuna vuota al momento dell’attacco. Queste azioni sono una evidente minaccia alla libertà di informazione e a tutti coloro che con coraggio cercano ogni giorno di raccontare al mondo le atrocità che si stanno verificando a Gaza.

Riportiamo di seguito le testimonianze dirette raccolte da Gaza.

Gli attacchi sulla gente, per le strade.

19/11, Yousef da Gaza City: “Non si dorme per niente. Anche stanotte dalle 3 alle 7 del mattino, hanno intensificato gli attacchi, hanno bombardato in continuazione. Non si può uscire di casa. Colpiscono la gente per strada. Ieri hanno colpito molte persone che camminavano. A Tel El Hawa hanno ucciso un ragazzo mentre stava prendendo un taxi”.

A Tel Al Hawa, Sud di Gaza City, alle 9.42 gli aerei israeliani hanno colpito un taxi con su la scritta “Press” a Tel Al Haua, per fortuna vuoto. Poco dopo alle 10:55 hanno bombardato un’altro taxi su cui viaggiava Mohammed Shamlak, 23 anni, che è rimasto ucciso. (Maan News Agency)


La distruzione delle case, il massacro dei civili e dei bambini.

19/11, ore 10:30. Da Beit Hanoun Sharif ci racconta: “Hanno completamente raso al suolo la casa di mia sorella. Un drone ha colpito con un missile il loro giardino. Le 6 famiglie, 50 persone, che stavano nell’edificio sono subito scappate via. Neanche 10 minuti dopo che sono scappati hanno bombardato la casa di tre piani,  distruggendola completamente. Sono qui sul posto e non so come descrivere quello che vedo. Dovreste essere qui per vedere, per poter capire. Altre 2 case sono state distrutte dalle bombe. Altre 15 case sono state danneggiate gravemente”.

19/11 - Lidia De Leeuw, un’attivista per i diritti umani, ha visitato una delle tante case colpite dai bombardamenti: “Oggi abbiamo visitato la famiglia Nasser a Beit Lahia. La loro casa di tre piani è stata bombardata. Ieri sera non usciva l’acqua dal rubinetto, allora verso le 2 di notte, il padre, Jalal Nasser è andato sul tetto a controllare la cisterna dell’acqua. Il figlio, Hussein Nasser, di 8 anni è andato con lui.  Mentre erano sul tetto un drone li ha colpiti con un missile uccidendoli entrambi. Il missile dal tetto ha attraversato i tre piani della casa distruggendo l’interno. La madre del bambino era sotto shock, non riusciva a parlare. Quando siamo arrivati dalla famiglia circa 200 uomini erano in coda per strada davanti alla tenda del lutto, aspettavano il proprio turno per porgere le condoglianze. Cinque minuti dopo il nostro arrivo hanno bombardato la strada da cui eravamo arrivati”.

Palestinians inspect destroyed buildings after an Israeli airstrike in Gaza
City Nov. 20, 2012. (Reuters/Mohammed Salem)

20/11, Ore 9:00 - Munir da Beit Lahia: “Grazie a dio noi tutti stiamo bene. Ieri hanno bombardato a 60 metri da casa mia, verso le 8 di sera. Qui a casa abbiamo urlato dalla paura,soprattutto i bambini,  la casa si è scossa così forte come se ci fosse un terremoto, eravamo terrorizzati. Hanno colpito la famiglia Hejazi, erano dentro alla casa. Sono morti il padre e due bambini. Ci sono 18 persone ferite anche tra i vicini. La madre è in ospedale, è in condizioni critiche, non sappiamo se ce la farà. E’ un situazione veramente difficile, è come la guerra di tre anni fa.
La notte è impossibile dormire. Stanotte cercavo di dormire per quaranta minuti, un’ora e poi un bombardamento, poi provavo a stendermi un attimo e di nuovo un boato. I miei bambini riescono a dormire solo un po’ di giorno. Mio figlio Uasim (3 anni) mi ha detto: “Papà, papà ti prego andiamocene da qui, andiamo in un posto sicuro”. E io gli ho risposto: “Amore non è possible muoverci, non possiamo andare da nessuna parte”.
Dove possiamo scappare? Stanno bombardando a Rafah, a Deir el baalh, a Gaza city… ovunque … nessun posto è sicuro. Non possiamo muoverci, non possiamo andare da nessuna parte.
Abbiamo fatto delle scorte di cibo, ho riempito la cucina. Ho comprato due sacchi di farina per fare il pane e abbiamo riempito 10 taniche di acqua da bere. Ci stiamo preparando perchè abbiamo paura che inizi l’invasione via terra, dobbiamo essere pronti.
I tagli dell’elettricità sono sempre uguali, abbiamo avuto l’elettricità di notte e alle 6 del mattino è andata via. Forse tornerrà nel pomeriggio verso le due, tre”.

Sami, giornalista che ha intervistato la famiglia Hijazi: “Hanno colpito la casa della famiglia Hijazi ieri sera alle 20, racconta il nonno, sopravvissuto insieme agli altri 5 figli della famiglia, al brutale bombardamento della casa. Anche la mamma e' in ospedale ferita gravemente. Il padre  52 anni, bidello della scuola, e' stato ritrovato seppellito in una  buca;  e stessa sorte hanno avuto i 2 bambini di 2 e 4 anni che sono rimasti uccisi. La casa si trova nel campo profughi tra Beit lahya e Jabalia. Vicino non c'erano obiettivi militari da dove si lanciavano missili”.

Abbiamo purtroppo appreso alle 22:38 del 19/11 che è morta anche Amna Hijazi, la madre che era rimasta gravemente ferita durante il bombardamento che ha distrutto la loro casa provocando la morte del marito Foad e dei loro figli Mohammed e Suhaib. (Maan News Agency)


19/11 - Inas, da Deir Al Balah: “E’ terrificante. Sto cercando di allontanare dalla mia testa il pensiero che i miei figli possano morire bruciati come è accaduto ai bambini della famiglia Al Dalou”.

Le macerie della casa della famiglia Al Dalou, Shekh Radwan, Gaza City

La famiglia Al Dalou
Domenica un attacco aereo israeliano a Sheikh Radwan ha ucciso 12 civili palestinesi, tra cui 10 membri di una stessa famiglia, la famiglia Al Dalou, tra cui 4 bambini e 4 donne.
L’ intera famiglia è rimasta uccisa quando un missile israeliano ha colpito la sua abitazione di 3 piani, radendola al suolo. Anche due vicini, una donna di 83 anni e un ragazzo di 19, sono rimasti uccisi. E 'stato il maggior numero di morti causati da un singolo attacco dall’inizio dell'offensiva israeliana lo scorso Mercoledì. Le squadre di soccorso per ore hanno cercato di tirare fuori i corpi dalle macerie. I corpi di Yara al-Dalou, 17 anni, e Mohammed al-Dalou, 29 anni, non sono ancora stati trovati.
Quattro donne della famiglia al-Dalou, Samah, Tahani, Suhaila e Ranim e quattro bambini Jamal, di 6 anni, Yousef di  4, Sarah di 7, e Ibrahim di 1 anno sono stati sepolti a Gaza City Lunedi.
(Maan News Agency)


19/11, Ore 18:00 - Yazan dal campo rifugiati di Burej: “Hanno appena bombardato a 50 metri da casa mia. Hanno ucciso due ragazzi, due miei vicini di casa, uno di 23 e uno di 25 anni. Sono stati feriti anche due bambini. Uno si trovava vicino ad una finestra, che si è rotta, e i vetri gli hanno tagliato la gola”.
Ore 17:48 - Due persone sono state uccise in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Bureij, nel centro di Gaza. Le vittime sono state identificate come Arkan Abu Kmayel e Ibrahim Al-Hawajri. (Nena News Agency)


Le famiglie in fuga dalla buffer zone.

19/11 - Sami, da Khan Younis: “Ieri è stata una giornata molto difficile. Hanno bombardato con gli F16 e tirato cannonate senza mai fermarsi in tutta l'area della buffer zone al sud di Khan Younis:  Abasan, Khuza'a, Faraheen, Al Foukhari. Molte famiglie che abitano al confine si sono spostate e hanno cercato rifugio presso altre famiglie; anche qui da noi a Bani Sohaila, perchè non siamo nella buffer zone. Qualcuno anche dei beneficiari del progetto di emergenza della cooperazione italiana è venuto qui dove è più protetto. Oggi l'UNRWA sta aprendo le scuole per accogliere le famiglie che stanno cominciando ad evacuare la buffer zone, i carri armati stanno scaldando i motori per cominciare. Questa volta se entrano fanno un disastro”.


Gli attacchi contro le moschee.

20/11 - Testimonianza di Mahmoud Al-Ashqar, un sopravvissuto dal raid che ha colpito la moschea di Al-Rahman, (campo di Bureij): Al 4° giorno dell'operazione militare l'aviazione  israeliana  ha deciso di colpire le moschee e ha iniziato con questa. Al- Rahman mosque. La moschea era vuota e chiusa cosi l'aviazione ha cominciato ad avvisare il vicinato che avrebbe colpito la moschea.   
I velivoli di ricognizione delle forze aeree dell'esercito israeliano hanno lanciato due missili di allarme su ogni casa, come un segnale di allarme, per informare gli abitanti nei pressi della moschea dell’attacco in arrivo. Io e la mia famiglia così come tutti gli altri, non avevamo altre opzioni se non fuggire da casa.
Le persone più sfortunate non hanno avuto neanche il tempo di prendere i beni necessari. Sono fuggiti solo con i loro vestiti. Dopo 2 minuti dal bombardamento dei missili di allarme, un aereo da guerra F16 ha bombardato la moschea di 3 piani, radendola completamente al suolo. Il bombardamento ha provocato anche l’emissione di schegge che hanno causato il ferimento delle persone che cercavano di fuggire. Una scena d’orrore che ha terrorizzato i bambini”.

17.11.2012 - Anche una moschea ed una casa nel campo profughi di al-Bureij sono state bombardate causando cinque feriti (Maan News Agency)

20/11, ore 17 - AGGIORNAMENTO DELL’ULTIMO MINUTO
Ci sono appena giunte telefonate da Beit Lahia e da Beit Hanoun di amici che con la voce allarmata ci hanno comunicato che nel pomeriggio di oggi l’aviazione israeliana stanno iniziando a far piovere i volantini per allertare la gente. I volantini stanno intimando tutte le famiglie di abbandonare le loro case in tutto il Nord della Striscia e le aree intorno a Gaza City di Shujaia, Shujaia Jdida, Sheikhajlin, Tel Al Hawa, Remal, Janub, Zeitun, Turkman.
La gente è terrorizzata, non sa dove scappare e teme questo sia il preannuncio dell’invasione via terra.

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Report realizzato dai cooperanti italiani che lavorano a Gaza di EducAid, OVERSEAS, CISS, ACS, CRIC.  
Secondo il protocollo di sicurezza della Cooperazione italiana per cui lavoriamo siamo dovuti uscire da Gaza al sesto giorno dell’attacco. Abbiamo già fatto presente alla Cooperazione che è necessario rientrare ed attivarsi per la popolazione civile.
E’ fondamentale continuare a raccontare al mondo della terribile situazione di Gaza dando voce alla gente di Gaza, ad amici e colleghi con cui siamo in costante contatto e di cui riportiamo qui le testimonianze dirette. 

domenica 28 ottobre 2012

Tre leggi per fare pulizia

Grazie al contributo di Giovanni Giovannetti

Riforma dei partiti, reddito garantito ai precari e misure per favorire la lotta all'evasione fiscale e all'economia criminale. Anche a Pavia parte la raccolta di firme in sostegno di tre proposte di legge di iniziativa popolare.
Sabato 27 ottobre presso la Sala Gruppi di Palazzo Mezzabarba a Pavia, si è tenuta la conferenza stampa di Elio Veltri, Paolo Ferloni e Fabio Greggio per illustrare i contenuti di tre leggi di iniziativa popolare a cura di Nomos – il popolo che propone le leggi
Il comitato promotore ha depositato in Cassazione le tre proposte di legge di iniziativa popolare, volte a fare pulizia e trasparenza nei partiti e nelle istituzioni, ad azzerare privilegi e raccomandazioni, a ridurre drasticamente la corruzione e l’evasione fiscale, a stroncare le organizzazioni criminali. In una parola a favorire pari opportunità a tutti i cittadini, e a modellare la vita pubblica sul merito e sui bisogni.
La prima (“Riforma dei partiti, taglio dei costi della politica, limiti di mandato”) prevede la responsabilità giuridica dei partiti: come ha osservato Elio Veltri, i partiti politici «sono associazioni private come qualsiasi bocciofila e quindi non rispondono a nessuno». Andrà dunque garantita una maggiore «democrazia interna vigilata dalla Corte Costituzionale, con relative sanzioni», prevedendo altresì «l’obbligo di bilanci trasparenti, certificati da società esterne ai partiti; nonché il taglio di almeno due terzi dei costi della politica». Inoltre: il tassativo «divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, di partecipare a concorsi e di essere assunti in presenza di parenti entro il terzo grado e di incompatibilità automatiche tra cariche diverse». Insomma, se passasse questa legge chi è sindaco o presidente della provincia non potrebbe fare il deputato né il senatore a tempo pieno.
La seconda (“Precariato, reddito garantito e riduzione delle forme contrattuali”) introduce il reddito garantito a determinate condizioni (ad esempio, non si potrà rifiutare un’offerta di lavoro) e la riduzione a 5 delle forme contrattuali (attualmente sono 46) per 4 milioni di precari, prevedendo altresì un salario minimo non inferiore a 10 euro lordi l’ora.
La terza (“Economia sommersa e criminale, riciclaggio ed evasione fiscale”) propone misure per favorire la lotta all’evasione fiscale attraverso il monitoraggio dell’Agenzia delle entrate su tutte le operazioni finanziarie dal loro avvio fino al loro termine; la radicale incompatibilità dei giudici tributari; l’aumento delle sanzioni pecuniarie e il divieto di quotarsi in borsa per imprese e società che abbiano sede nei paradisi fiscali. Ancora Veltri: «Da ricerche recenti risulta che le due economie messe insieme valgano 700 miliardi di euro. Questo significa che più del 40 per centro del Pil è fuorilegge e produce una montagna di evasione fiscale. Dei 700 miliardi, 200 sono di economia mafiosa e criminale». Dunque, le tre proposte di legge «rappresentano una delle più importanti riforme di struttura del Paese».
In Italia oltre 4 milioni di precari si sommano a 3,5 milioni di lavoratori in nero. Il valore dei beni delle mafie italiane ammonta a 1.000 miliardi di euro; il fatturato annuo di Mafie Spa è di 200 miliardi (dati Bankitalia ed Eurispes). Negli ultimi 4 anni sono stati sequestrati beni per 40 miliardi ma non sono né utilizzati né venduti, poiché – ammette il Procuratore nazionale antimafia Grasso – «non si adottano leggi per potere fare reddito con questo imponente valore economico». Secondo il professor Paolo Ferloni, «la proposta di Nomos contiene gli strumenti per raggiungere questo obiettivo».
Del comitato promotore fanno parte varie associazioni e personalità quali Margherita Hack, Giorgio Ruffolo, Nando Dalla Chiesa, Giulietto Chiesa, Franca Rame, Milly Moratti, Nicola Tranfaglia, Salvatore Borsellino, Oliviero Beha, Don Luigi Merola, Santo Versace e molti altri (l’elenco completo lo si trova in "Nomos, il Popolo che propone le Leggi").
Nel suo intervento, il coordinatore lombardo di Nomos Fabio Greggio ha rilevato che «in Italia vi sono due problemi fondamentali, tali da minare la stabilità sociale ed economica del Paese. Il primo: milioni di disoccupati e precari che gravano sulle famiglie, ma soprattutto che perdono la dignità dell’individuo. Il secondo: i giovani che non trovano lavoro e gli anziani che lo perdono. Un Paese che non aiuta il cittadino a mantenere la propria dignità – lamenta il coordinatore di Nomos – non è un Paese civile». Greggio ha poi denunciato «un’evasione fiscale di circa 150 miliardi l’anno, cui si devono aggiungere l’elusione e i proventi dalla criminalità organizzata». Un problema, secondo Greggio «ben affrontato nella proposta di legge sull’evasione fiscale e criminale, proposta finalmente risolutiva».
Quanto ai partiti, oggi non hanno l’obbligo di definire pubblicamente i loro conti, non essendo soggetti giuridici. Greggio: «il nepotismo è largamente praticato e gran parte dei fondi pubblici dati ai partiti vengono usati in modo personale».
La proposta di legge sulla riforma dei partiti e i costi della politica impone la loro trasformazione in soggetti giuridici, con l’obbligo di dichiarare la provenienza dei fondi acquisiti, dove sono depositati e come sono usati. È altresì vietata l’assunzione di famigliari fino al terzo grado di parentela.
Concludendo, Paolo Ferloni ha invitato «ogni cittadino di buon senso» a sottoscrivere le tre proposte di legge, poiché «da sole sarebbero capaci di cambiare radicalmente il volto del Paese, liberando energie in modo consequenziale. Non un libro dei sogni, ma tre leggi scritte con un lavoro durato un anno e in cui è indicata anche la copertura finanziaria». Sta ora ai cittadini «dimostrare il coraggio di sottoporle al Parlamento, con la sola fatica di una firma».

sabato 15 settembre 2012

Vita monacale e democrazia

La “Regola benedettina” è ancora viva e attuale all'interno delle mura monastiche.

Il modello organizzativo delineato da san Benedetto nella sua Regola non è un “pezzo di antiquariato”.

Molte imprese e organizzazioni dovrebbero capire che "Ora et Labora", la Regola, è ancora efficace ed applicabile e, per certi aspetti, molto innovativa. San Benedetto - e oggi i suoi monaci - con il loro modo di vivere ed esistere propongono questo messaggio, forte e chiaro.

Il mondo, in fondo in fondo, è sempre lo stesso, i barbari sono alle porte, non vestono pelli, hanno abiti eleganti e parlano in modo colto, ma sono sempre loro. Dove passano resta devastazione e cenere.

Solo con una generazione di “nuovi monaci” potrebbe nascere una nuova Italia, una nuova Europa e un nuovo mondo, dove sarebbe più bello vivere e lavorare.

Se le varie organizzazioni umane private e pubbliche fossero gestite seguendo questi principì, prenderebbero decisioni sicuramente più sagge e lungimiranti.

64. Dell’elezione dell’abate
dalla Regola di san Benedetto
Nell'elezione dell'abate si segua il criterio di costituire in tale ufficio colui che sia stato scelto da tutta la comunità concordemente secondo il timor di Dio, o anche solo da una parte di essa, sia pure piccola, ma con più savio consiglio.
Chi poi dev'essere costituito abate sia scelto in base alla dignità della vita e alla scienza delle cose spirituali, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunità.
Se invece i monaci anche tutti d'accordo eleggessero non sia mai una persona che consentisse ai loro vizi, e tali vizi venissero per qualunque via a sicura conoscenza del vescovo alla cui diocesi quel luogo appartiene, o degli abati o dei cristiani vicini,  essi impediscano che prevalga il concorde volere dei cattivi e stabiliscano un degno amministratore alla casa di Dio: sapendo che ne riceveranno copiosa mercede, se lo faranno con rettitudine d'intenzione e per zelo dell'onore di Dio, mentre al contrario commetterebbero una colpa se non se ne curassero.
Chi poi è stato costituito abate, pensi sempre qual peso s'è addossato e a chi dovrà render conto della sua gestione. Sappia che è suo dovere più il giovare che il comandare. Bisogna dunque ch'egli sia versato nella conoscenza, della legge divina, perché abbia la perizia e la materia per trarre insegnamenti nuovi e antichi; sia casto, sobrio, indulgente e sempre faccia prevalere la misericordia sulla giustizia, per meritare anche lui lo stesso. Odii i vizi, ami i fratelli.
Anche nel punire agisca con prudenza, e sia attento a non eccedere, perché non avvenga che mentre vuol troppo raschiare la ruggine, si rompa il vaso: consideri sempre con diffidenza la sua fragilità e ricordi che la canna percossa non bisogna spezzarla. Con ciò non intendiamo dire che permetta il fomentarsi dei vizi, ma che deve stroncarli con prudenza e carità, secondo che gli parrà più conveniente per ciascuno, come già dicemmo; e si sforzi d'essere amato piuttosto che temuto.
Non sia turbolento ed agitato, non sia petulante ed ostinato, non geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai pace; negli stessi suoi comandi sia previdente ed assennato, e tanto se la cosa ch'egli impone è d'indole spirituale, quanto se riguarda gli affari temporali, egli proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe che diceva: Se i miei greggi li farò stancare troppo a camminare, mi morranno tutti in un solo giorno.
Seguendo dunque questi ed altri ammaestramenti della discrezione, la quale è madre delle virtù, regoli tutto in modo che i forti abbiano di che esser bramosi e i deboli d'altra parte non si sgomentino.
E soprattutto serbi intatta in ogni punto la presente Regola, perché, dopo aver bene amministrato, possa udire dal Signore ciò che udì il buon servo che aveva dispensato il frumento ai suoi compagni nel tempo opportuno.
In verità vi dico (egli afferma), gli diede potere sopra tutti i suoi beni.

giovedì 6 settembre 2012

Mirandola, (Modena), luglio 2012

E' stata una dura l’estate nella campagna emiliana devastata dal terremoto. Nelle campagne case coloniche e fienili sono a terra. Dopo le scosse del 22 e 29 maggio sono state sfollate nelle tendopoli più di 16 mila le persone. In centro città a Mirandola le macerie sono ovunque. Negli spazi aperti, pubblici e privati, ci sono ancora tende, roulotte e camper.

Le aziende del territorio danno lavoro a circa 15 mila persone, concentrate nei comparti biomedicale, meccanico e alimentare. Un giro d'affari 3,6 miliardi di euro. La zona vale da sola due punti del PIL italiano. Con la seconda scossa, quella del 29 maggio, i capannoni si sono accasciati. I danni quantificati sono tra i 5 e i 6 miliardi, ma in pochi sono rimasti fermi più di una settimana.

Ai bordi delle zone rosse, recitante e presidiate giorno e notte dalle forze dell’ordine, ci sono un'infinità di cartelli e di annunci. Dentisti, gioiellieri, sarte, erboristi e tanti altri piccoli artigiani vogliono continuare a lavorare, nonostante tutto. Dopo la distruzione, molto più pesante di quanto si percepisca da lontano, gran parte delle attività sono ripartite. Sulla recinzione che delimita la zona rossa, vicino al palazzo comunale, campeggia un cartello giallo: "Questo era, e sarà sempre il centro di Mirandola". Commercianti, artigiani, uffici si sono arrangiati e non si arrendono: tappezzieri che rifanno divani in giardino, parrucchiere coi caschi nei garage, estetiste nei container, palestre con gli attrezzi sotto un gazebo.

La gente di qui è più tenace delle scosse, della paura. ”Barcolliamo... ma non molliamo” è il motto che l'ANPAS ha fatto stampare sulle magliette. Ed è vero. Nelle tendopoli i rappresentanti del comune vanno a spiegare perché molte tende saranno a breve smantellate. Spiegano dove e come si tornerà alla normalità: quando saranno terminati i controlli degli edifici, chi ha la casa agibile sarà invitato a rientrare e non potrà più mangiare nelle mense.

Le scosse rallentano e il lavoro quotidiano di tutti non si arresta: Protezione Civile, Scout, militari in divisa, volontari civili sono ancora a fianco della gente.

Mirandola, (Modena), luglio 2012
Mirandola, (Modena), luglio 2012
Mirandola, (Modena), luglio 2012

Mirandola, (Modena), luglio 2012

Mirandola, (Modena), luglio 2012

Dal primo giorno del terremoto gli scout si sono impegnati per dare assistenza alle popolazioni colpite dal sisma.

Il sito AGESCI della regione Emilia Romagna, dal 22 maggio al 30 luglio, ha pubblicato anche le testimonianze di chi ha prestato servizio volontario nelle zone terremotate.


Mirandola luglio 2012 - Campo Aosta

mercoledì 27 giugno 2012

Il Cammino di S. Agostino

Il Cammino di Sant'Agostino - detto anche "il Cammino della Rosa" - è un pellegrinaggio molto caratteristico.

Può durare dalle due alle tre settimane (o anche di più) e si percorre seguendo uno schema che assomiglia appunto ad una rosa, dove i petali del fiore sono costituiti dai 25 tradizionali santuari mariani dell'alta Brianza, mentre il gambo è rappresentato dalla via che conduce alla tomba di Sant'Agostino a Pavia. Se si ha più tempo a disposizione si può anche allungare questo gambo ed arrivare al mare, a Genova, attraversando gli appennini.

La prima fase del percorso di fede é chiuso e circolare, dando al Cammino di Sant’Agostino la caratteristica forma del bocciolo di una rosa e si visitano tutti i luoghi come fossero i petali di questo fiore. Il cammino prosegue a Milano e poi verso Pavia, lungo quello che si chiama "Gambo della Rosa".

In questo modo si vogliono ricordare le tappe della vita di Sant'Agostino.

Si inizia partendo dai luoghi di culto mariano della Brianza. Poi si fa tappa, in ricordo del battesimo ambrosiano, alla Basilica di Sant'Ambrogio di Milano. Un altro luogo agostiniano, proseguendo verso sud, prima di arrivare a Pavia è il monastero della Certosa di Pavia. Qui, non molti lo sanno, c'è una processione della Madonna della Cintura che, a Torriano, nasce nel lontano 1575 e che fu riconosciuta dai pontefici sin dalle sue origini. Questo rito mariano, tipico della devozione dei Padri Agostiniani, è giunto sino ad oggi grazie alla perseveranza di chi, in questo paese, ha tramandato la tradizione di generazione in generazione. Questa devozione mariana di Torriano non dovrebbe passare inosservata al pellegrino e può essere inserita nel Cammino agostiniano, innestandosi come un germoglio nel "Gambo della Rosa" del pellegrinaggio.

La cappella della Consolata di Torriano - Certosa di Pavia
Ai primi di settembre la processione della Madonna della Cintura segue il percorso, molto suggestivo, che ha inizio dalla cappella e che termina nella chiesa parrocchiale di Sant'Apollinare. E' questo un germoglio del "Gambo della Rosa" agostiniano.

Chiesa di Sant'Apollinare a Torriano - Certosa di Pavia
La tradizione dice che Santa Monica - madre di Sant’Agostino, una volta rimasta vedova, volle imitare la Vergine anche nell’abito. Così la pregò di farle conoscere come fosse vestita dopo l’ascensione di suo figlio Gesù al cielo. La Vergine Maria le apparve con una veste assai dimessa, stretta ai fianchi da una cintura di pelle. Consegnò quindi a Santa Monica questa cintura, con la raccomandazione di indossarla sempre e di tramandare questa pratica come simbolo della penitenza per tutti i fedeli che desiderassero le intercessioni della Madonna.

Il pellegrinaggio termina il suo percorso lombardo a Pavia alla Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove si venerano le reliquie e la tomba di Sant'Agostino.

Il Cammino di Sant’Agostino però continua e, dopo aver toccato i 25 Santuari mariani della Brianza e i tre luoghi “simbolo” della devozione agostiniana lombarda, termina a Genova che viene raggiunta sulla suggestiva e splendida “via del sale”. Questo è lo storico sentiero che univa e tuttora unisce le città di Genova e Pavia attraversando l'appennino. E' proprio lungo questo suggestivo sentiero che nel VIII secolo il grande re Longobardo Liutprando fece trasportare a Pavia le sacre reliquie di Sant'Agostino.


Questo percorso ha una grandissima importanza che va ben oltre a quella religiosa e paesaggistica. E' il tracciato che ha contribuito a costruire la storia e la cultura dei territori liguri e lombardi. Sulla cartina si vede come si snodano le tappe del tratto appenninico del Cammino di Sant’Agostino.

Informazioni utili e gli indirizzi dove si offre ospitalità è consultabile nella mappa "Il Cammino di Sant'Agostino"

giovedì 26 aprile 2012

Un Barcè alla Certosa di Pavia

Che cosa ci faceva questa mattina un Barcè parcheggiato sul piazzale davanti al monumento della Certosa di Pavia? Chi vive in provincia di Pavia non può non sapere cos'è un Barcé. E' la tipica barca fluviale, così chiamata a Pavia che, leggerissima, scorre agile e impavida sulle acque del Ticino. Lungo le rive dei nostri corsi d'acqua padani purtroppo non è più così frequente vedere queste imbarcazioni. Per secoli hanno solcato il fiume in lungo e in largo, mezzo di trasporto e strumento di lavoro per i pescatori di fiume.



Mi fermo a parlare con chi sta custodendo il Barcé parcheggiato e scopro che Guido Morandini, regista Rai, oggi è alla Certosa di Pavia. Sta facendo un viaggio. Un viaggio sui fiumi e canali lombardi, tra Po, Ticino e Navigli. Un viaggio che sarà anche un racconto televisivo, un documentario prodotto da RAI 5.

Il suo viaggio ha come obiettivo documentare le origini del Duomo di Milano. Tutto il percorso che, sulle acque dei canali navigabile e dei fiumi lombardi fece, dalle cave di Candoglia in quel di Brescia il famoso marmo rosato che servì per realizzare il Duomo di Milano ed anche la Certosa di Pavia. Durante il tragitto Guido Morandini (urbanista che ha collaborato alla realizzazione del Piano Regolatore Generale di Roma, Siena e Follonica) non è nuovo a questo tipo di esperienza e non vuole limitarsi a  risalire sulle acqua il percorso del marmo e dei materiali di costruzione della grande cattedrale meneghina, ma vuole incontrare il territorio e la sua attualità. Visito incuriosito il blog "Spartiacque - La cattedrale sull'acqua" dedicato a questa sua nuova avventura e leggo con piacere che sta percorrendo questo suo nuovo viaggio nella cultura e nell'umanità padana.

Oggi Morandini è qui a Certosa e con la telecamera sta documentando il marmo dei bassorilievi della facciata del Monumento, muto testimone che ha visto scorrere attraverso i secoli - la vita scorrere ai suoi piedi, come sulle rive dei nostri corsi d'acqua. Aspetto con ansia di leggere le altre tappe e poi infine di vedere il documentario in TV.

mercoledì 25 aprile 2012

25 aprile 1945, Liberazione e Aquile Randagie

Buon 25 aprile a tutti... oggi si festeggia il 67° anniversario della Liberazione.

Il 25 aprile del 1945 i nostri padri e nonni onorarono l'Italia democratica liberandola dalla dittatura e portando la pace dopo una lunga guerra che fece milioni di morti in tutto il mondo.

Oggi voglio ricordare quello che fu l'impegno delle Aquile Randagie per la Liberazione ed alcune cose ai nostri ragazzi che spesso, purtroppo, non sanno nemmeno cosa si celebra oggi.
Primavera d'Italia, riappaiono gli Scout senza sventolii o esibizionismi, per collaborare con attività di soccorso e collegamento nelle ore cruciali della rivolta.
(da uno scritto di Guido Bertone)
Questo orgoglio va sottolineato perchè gli scout italiani sfidarono il regime fascista per diciassette anni e presero parte attiva alla Resistenza e alla lotta contro l’occupazione nazista. Voglio dedicare questo spazio ad alcuni accenni della storia delle Aquile Randagie, dell’OSCAR, e più in generale degli scout italiani che sfidarono il regime fascista.

Il fondatore dello scoutismo, Robert Baden-Powell, era un militare pluridecorato che ne aveva abbastanza della guerra, sognava un mondo in pace e delle armi voleva salvare solamente l’enorme potenziale educativo della vita e dell’esplorazione nella natura, dell’ingegnarsi per vivere con mezzi essenziali. Lo scoutismo fu pensato da Baden-Powell con l’obiettivo di formare il buon cittadino, competente, capace di grandi ispirazioni e capace di progettare una vita autonoma e dedicata al servizio inteso non solo come servizio verso il prossimo, ma come scelta di vita.

Lo scoutismo in Italia non potè convivere con il fascismo. Fin dai primi anni del regime fascista vi furono assalti alle sedi ed episodi di gravi violenze commesse nei confronti degli scout. Il 23 agosto 1923 ad Argenta viene assassinato don Giovanni Minzoni “colpevole” di aver zittito il segretario locale del fascio che gli impediva tra le ingiurie di esporre le finalità dello scoutismo in un pubblico evento. Era la vendetta nei confronti di un frequentatissimo gruppo scout, dove il locale gruppo di Balilla non registrava che un solo iscritto.

Tra il 1927 e il 1928 il regime fascista sopprime definitivamente lo scoutismo. Gli scout di tutta Italia organizzano cerimonie per la cessare le loro attività. Ma molti decidono di non cedere di fronte al sopruso e prendono la via della clandestinità. Il caso più celebre è quello delle Aquile Randagie, gruppo di scout clandestini attivo tra Milano, Como, Parma e Monza.
Esponendosi a gravi rischi e con personali sacrifici continuarono a svolgere attività e campi indossando con orgoglio l’uniforme.

Riuscirono così a mantenere i rapporti con l’organizzazione mondiale dello scoutismo. Il gruppo era ispirato dal giovane educatore Giulio Cesare Uccellini (Kelly) e dall’esploratore Andrea Ghetti (Baden).

Il gruppo riuscì a sventare tentativi di infiltrazione di fascisti, si passava le informazioni sugli appuntamenti attraverso dei foglietti che erano nascosti sapientemente nel foro della colonna di un palazzo nei pressi di piazza del Duomo. Ancora oggi quando la stretta di mano con i mignoli incrociati è quella che si usava negli anni della clandestinità.

Dopo la caduta del fascismo e l’8 settembre, le Aquile Randagie decisero di costituire l’O.S.C.A.R. (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati), con l’obiettivo di trarre in salvo chiunque fosse ricercato dai nazifascisti.

Nessuno come le Aquile Randagie conosceva la Val Codera, i cui sentieri di montagna garantivano il passaggio del confine svizzero. Così Oscar divenne presto un nome di persona, un tam-tam che celava rischiose operazioni di salvataggio, la stampa di documenti falsi, la diffusione della rivista clandestina “il Ribelle”. Celebre rimase il “rapimento” dall’ospedale di un bambino ebreo destinato al campo di sterminio.

L'attività dell'O.S.C.A.R. si riassume in 2.166 espatri clandestini, tra i quali quello di Indro Montanelli, 500 preallarmi, 3.000 documenti falsi e una spesa di 10 milioni di lire di quel tempo. LE attività dell’O.S.C.A.R. fecero infuriare le SS e i Fascisti che iniziarono la caccia all’uomo. Cominciarono i primi arresti, le torture e le esecuzioni.

“Le Aquile Randagie considerarono tutto come dovere, come coerenza ad una Promessa che nessuna dittatura avrebbe potuto cancellare dal loro spirito. Agirono così, perché così dettò la loro coscienza; erano ragazzi di modeste famiglie del nostro popolo (...) Non pensavano ad un avvenire di conquista di potere, erano rimasti quello che un giorno si erano impegnati di essere: Scout. Solo questo, per un atto di lealtà verso se stessi e verso altri ragazzi cui un giorno avrebbero consegnato, intatto, un Ideale” Guido Bertone)

Val Codera - La Centralina (di Agesci Umbria)

domenica 22 aprile 2012

San Giorgio, santo patrono degli scout

Il 23 aprile di ogni anno gli esploratori e le guide rinnovano solennemente la Promessa scout, secondo l’invito di Baden-Powell, il fondatore dello scautismo, il fondatore dello scautismo, che suggerisce di “rammentarla”.

Richiamando la figura del santo cavaliere, invita ripetutamente gli scouts a rifarsi alle virtù eroiche di tale modello che può ispirare il loro itinerario di formazione educativa. Baden-Powell raccomanda agli scouts di tutto il mondo non tanto la persona del Santo in sé, quanto i principi e le qualità che egli impersona e rappresenta.

Baden Powell propone San Giorgio come modello a cui dovrebbe ispirarsi ogni scout o guida, anche di fedi diverse dalla cristiana.

Perché san Giorgio è un modello, anzi il patrono degli scouts?

San Giorgio incarna gli ideali del cavaliere medioevale: difensore di miseri ed indifesi, viene eletto patrono della cavalleria crociata. Della sua vita, famoso è l’episodio in cui libera la Principessa dal dragone.

Nel Medioevo la sua lotta contro il drago diventa il prototipo della lotta del bene contro il male e per questo il mondo della cavalleria vi vede incarnati i suoi ideali.

San Giorgio è esempio di cavaliere ardente, entusiasta, fedele, forte, vittorioso.

San Giorgio é un modello per ogni scout e guida, che nella Promessa si impegnano a vivere la propria vita a servizio di Dio e dei fratelli, attraverso buone azioni ed il servizio ad aiutare quanti sono in difficoltà.

La stessa Legge scout, come rivisitazione degli ideali cavallereschi, trova in san Giorgio il suo modello di “fattibilità”.

Un esploratore e una guida, guardando a questa figura simbolica, sanno di poter vivere anche loro la grande avventura, fedeli e pronti nel compiere il bene anche superando prove difficili.


Il 23 aprile si festeggia San Giorgio.





venerdì 30 marzo 2012

Cultura e Coltura

Cultura è l'insieme di conoscenze che formano la personalità ed affinano le capacità di un individuo.

Coltura è la coltivazione di piante e l'allevamento di animali.

I termini "cultura" e "coltura" spesso vengono confusi, anche se oggi le definizioni sono distinte nettamente: la cultura riguarda la sfera intellettuale, la coltura si riferisce ai campi.

L’origine delle due parole ha la stessa origine etimologica: in latino cultura deriva da cultus, participio passato di còlere, cioè coltivare. Quando Cicerone parlava di “cultura animi" si riferiva al patrimonio tramandato di un sapere tradizionale, che consente all’uomo di sfuggire alla condizione barbara dei non emancipati.

Come il cibo è l'elemento basilare per il nutrimento del corpo, la cultura è fonte di nutrimento per la mente e per l'arricchimento conoscitivo. La cultura è cibo a tutti gli effetti.

Può la CULTURA produrre i propri specifici "frutti" se non viene "COLTIVATA"? Si può fare a meno del cibo per il corpo? E di quello per la mente?

Il giardino interno della Certosa di Pavia, coltivato dai monaci
La messa a reddito dei beni culturali - Il Fatto Quotidiano
Anche Giorgio Napolitano ha aderito al “manifesto per la cultura” del Sole 24 ore. E nel messaggio inviato in occasione della XX Giornata Fai di Primavera, il Capo dello Stato non solo ha sposato la linea di fondo del “manifesto” (quella, tautologica, per cui la ‘cultura fattura’), ma ne ha esplicitato e radicalizzato il nucleo più controverso. «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione – ha scritto il Presidente – bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».
Sfruttare fino in fondo il patrimonio storico-artistico: difficile trovare una formulazione più estrema della cosiddetta dottrina del petrolio d’Italia, o dei giacimenti culturali, nata nell’Italia craxiana degli anni ottanta del secolo scorso. Ed è anche difficile trovare un’accezione del verbo ‘sfruttare’ che, per quanto metaforica, sia compatibile con la funzione costituzionale del patrimonio (che è quella di produrre non sviluppo economico, ma cultura). Secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, sfruttare vuol dire «privare un terreno degli elementi nutritivi», «usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico», «depredare una regione delle sue risorse naturali», «usare in modo esclusivo», «vivere alle spalle di qualcuno», «usare o abusare di qualcuno o qualcosa». Ciascuna di queste accezioni richiama alla nostra mente centinaia di aggressioni, morali e materiali, al patrimonio storico e artistico della nazione perpetrate in nome della sua messa a reddito. Ed anche l’accezione meno negativa («ricavare il massimo profitto da ciò che si ha a disposizione») è davvero poco edificante, se accostata, non so, a Michelangelo o alla Valle dei Templi.
Con questo messaggio, Napolitano ribalta dunque la dottrina quirinalizia sul patrimonio, che nel 2003 era stata messa a punto (su frequenze, quelle, perfettamente costituzionali) dal filologo classico ed economista Carlo Azeglio Ciampi: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità»
Lo «sfruttare fino in fondo» di Napolitano converte il patrimonio in un mezzo piegato al fine del reddito, e dunque smentisce questo illuminatissimo discorso, precipitandoci in un mercatismo senza se e senza ma che appare perfettamente in linea con la politica del governo che il Capo dello Stato sta, virtualmente, guidando.
«Fino a quando gli oggetti dell’istruzione pubblica verranno considerati come gioielli, come diamanti dei quali non si gode se non per il prezzo del loro valore?». Lo scrive Antoine Quatremère de Quincy. Nel 1796.

venerdì 16 marzo 2012

Pagare per entare in Chiesa?

Da lunedì 19 marzo le visite all'interno del Duomo di Milano saranno a pagamento.

Oltre alle visite che sono già a pagamento, la novità riguarderà le comitive: dovranno sborsare 5 euro per il noleggio - obbligatorio - di una "audioguida". E ciò non basterà: sarà anche necessario prenotare la visita per entrare nella cattedrale di Milano. L’obolo sarà richiesto solo ai gruppi organizzati e alle comitive. Le visite dei singoli turisti "non organizzati" restano gratuite: avranno però una fila distinta e riservata che darà loro la possibilità di entrare senza bisogno di fare la coda.

Il Duomo è Milano. E' il simbolo più noto della città. Noi milanesi, siamo poi affezionati alla nostra "bela Madunina, che te brillet de luntan, tuta d'ora e picinina". Guardiamo in alto e la vediamo là, ferma sulla guglia più alta, a reggere il parafulmine che spesso sventola la bandiera tricolore.


 

Tra tutti i monumenti del capoluogo lombardo, il Duomo è senz’altro il più visitato: si parla di 4 milioni di turisti all’anno, circa 100mila a settimana. Già da tempo si parlava di far pagare l'ingresso in Duomo. Questo "obolo" obbligatorio è stato deciso dalla Veneranda Fabbrica del Duomo. La "fabrica del Dom", come ogni milanese sa, è la metafora dei "lavori sempre in corso" che non finiscono mai. Nel bilancio della Fabbrica sono stanziati circa 26 milioni di euro, più altri 40 per i restauri da completare entro l’Expo 2015. Attualmente sono in corso 12 interventi, tra ordinari e straordinari. Negli ultimi anni il numero dei turisti a Milano è aumentato, con la conseguenza che il pavimento si rovina più velocemente ed i marmi devono essere ripuliti e ristrutturati ogni 30 contro i 50-60 anni che erano anticamente previsti. Finanziare e garantire la continuità dei restauri è diventata una priorità.

La decisione adottata a Milano, diventata ormai definitiva, si inserisce in un campo dove molte sono le polemiche. Il pagamento dell'ingresso in Duomo sarà dovuto solo dai turisti e non dai fedeli ovviamente. Il Consiglio Permanente della C.E.I. è fermo sulla sua decisione. Cè da segnalare però che questa posizione si scontra con le famose italiche contraddizioni. E' la stessa C.E.I. che rileva - in un suo studio - come ci siano almeno 59 chiese dove - per accedere e visitarle - viene chiesto il pagamento di un biglietto. Si paga per entrare in Santa Croce e in Santa Maria Novella a Firenze . Sempre in Toscana si pagano 2 euro per entrare nella Cattedrale di Pisa. Si passa al Veneto, dove sono ben 17 le chiese di Venezia dove si paga, tra cui Santa Maria del Giglio, Santa Maria dei Frari, Santa. Maria Formosa: con 10 euro si può visitarle tutte. Poi andiamo in Romagna: per la visita della Basilica di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna e dell'Abazzia di Pomposa a Ferrara è  la locale Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici a far pagare il biglietto d'ingresso.
Si lasciano le cose come stanno oggi - pur con tutte le eccezioni documentate - o si può far pagare un "biglietto d'ingresso" per altre chiese e complessi religiosi monumentali che hanno bisogno di costante e continua manutenzione? Pagare un ticket di ingresso per la Certosa di Pavia ad esempio?

Pagine milanesi di alcuni quotidiani che parlano del contributo per la visita del Duomo di Milano:
"la Repubblica" - 16 giugno 2011
"Corriere della Sera" - 15 marzo 2012
"il Giornale" - 15 marzo 2012

mercoledì 14 marzo 2012

Cosa sono le Soprintendenze?

Ci sono molti esperti che si impegnano a discutere del futuro della conservazione dei beni artistici e monumentali. In un lungo articolo - che riporto integralmente sotto la foto - due studiosi analizzano quello che succede in Italia, e citano la nostra Certosa. E' emblematico che questo loro articolo nasca proprio dalla provocazione di Gianni Barbacetto, sulle pagine de "il Fatto Quotidiano", dove - con tono provocatorio - lanciava un grido d'allarme, chiedendosi che ruolo potesse avere l'allora Ministro delle Finanze Tremonti (il Governo Berlusconi era ancora in auge) nella gestione della Certosa di Pavia. Barbacetto avanzava anche una proposta - neanche tanto campata per aria - di far pagare una modesta somma per l'ingresso (accade già in tante chiese in Italia), gli introiti avrebbero lo scopo di dare una mano a difendere, gestire e restaurare la Certosa.

Gerardo De Simone e Emanuele Pellegrini, non condividono l'indiscriminato sfruttamento dei beni artistici, fanno un analisi del monitoraggio della spesa del Ministero dei Beni Culturali e, supportati anche da varie riflessioni, affermano che i soldi pubblici non manchino, ma che debbano solo essere ripartiti ed investiti in modo più oculato, che devono essere diretti verso il territorio utilizzandoli - con un’adeguata ripartizione dei fondi così ritrovati - per nuove assunzioni di personale tecnico (non amministrativo), per il finanziamento dei restauri.

Spero che chi dovrà prendere le future decisioni dia loro ragione. Resta solo da vedere chi sarà a prendersi questo onere di agire in modo efficace nella gestione dei bilanci e della ripartizione delle risorse. Qualora accadesse ciò si potrebbe disporre di somme non indifferenti. Loro si auspicano solo che le Soprintendenze non cedano - testualmente - "alle facili lusinghe degli 'eventi' e delle 'grandi mostre', dirottando fondi ed energie in kermesse effimere, spesso prive di spessore scientifico, fugaci fiere di vanità personali e interessi commerciali" ma che tutte le risorse recuperate siano impegnate nella “conservazione attiva” del nostri beni culturali.

Tutti, il mondo intero, ne sarebbe riconoscente e - a loro magari non piace - anche l'economia nazionale ne trarrebbe di sicuro beneficio. Gettare alle ortiche il patrimonio artistico italiano è un vero e proprio atto criminale.


Una parola sulle Soprintendenze
di Gerardo de Simone ed Emanuele Pellegrini
In un articolo apparso qualche mese fa su “Il Fatto Quotidiano” (Certosa di Pavia allarme nero, 29 settembre 2011), Gianni Barbacetto ha denunciato la gravissima situazione in cui versa la Certosa, un monumento la cui importanza non va certo sottolineata, tra «piccole sculture con le figure in marmo spezzate e portate via come souvenir», «strutture fatiscenti», intere aree «non visitabili». 
Non vogliamo entrare nel merito specifico della conservazione della Certosa quanto piuttosto rimarcare che, nell’economia di questa documentata denuncia, in cui pur si citano i principali attori (il Demanio dello Stato, il Ministero del Tesoro e i frati), la Soprintendenza non è mai menzionata. Non già per segnalarne meriti o demeriti, ma solo quale naturale rimando all’istituzione che, sul territorio, ha la responsabilità della tutela del patrimonio culturale italiano, chiunque ne sia il proprietario (a maggior ragione se si tratta di un bene statale). Dunque quella parte dell’amministrazione statale che avrebbe il potere di intervenire per far sì che tale situazione possa essere se non corretta, almeno arginata, e comunque documentata.
Un’assenza che colpisce molto e crediamo non derivi da negligenza del giornalista. 
In effetti viene da chiedersi quale sia la percezione che si ha, negli ultimi tempi (diciamo pure nell’ultimo decennio), della Soprintendenza come organo dell’amministrazione dello Stato. Non tanto da parte del mondo della cultura, e in particolare degli addetti ai lavori (archeologi e storici dell’arte), quanto piuttosto da parte della società civile. Se si dovesse condurre un’indagine statistica, magari con interviste sul campo, probabilmente la Soprintendenza verrebbe riconosciuta nella maggioranza dei casi in quell’ufficio in cui ci si imbatte, spesso in maniera sgradevole, quando si deve ampliare una casa, chiudere un terrazzo, aprire una finestra. Non più, quindi, le famose “Belle Arti”, cioè il presidio “prefettizio” dello Stato, deputato in primis a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico della Nazione, ossia di tutti i cittadini, a studiarlo per migliorarne la comprensione e di conseguenza la protezione stessa, bensì un ostacolo burocratico che limita libertà personali, una specie di proterva agenzia delle entrate di cui si subisce l’azione. E dalla cui azione si cerca di preferenza, molto italianamente, di scappare.
Tale percezione si può spiegare in molti modi, ma in particolare se si considera il recentissimo scivolamento del patrimonio culturale da strumento di civiltà, di cultura e di identità a merce, oppure – il che è assai peggio – a (presunto) freno allo sviluppo (?) dell’Italia, mentre contemporaneamente non cessa di ingrassare la sciocca retorica dei “beni culturali” come petrolio d’Italia. Di fatto, negli ultimi anni, il motivo per cui le Soprintendenze hanno spesso “bucato” le prime pagine dei quotidiani risiedeva nel loro impegno nel fronteggiare i ripetuti condoni che hanno minato la tenuta del patrimonio culturale italiano (paesaggio e beni culturali) e le insidie dei decreti milleproroghe, veri e propri omnibus legislativi, entro cui sovente sono state nascoste pratiche lesive dell’integrità del patrimonio nazionale. Tutto ciò ha di necessità ridotto gli organi di tutela a essere una sorta di appendice degli uffici urbanistici comunali, spesso anzi in conflitto con questo, a considerare, ad esempio, la disinvoltura con cui gli enti locali si sono mossi – e continuano a muoversi – nella concessione di più o meno lucrosi permessi di edificazione.
Eppure le Soprintendenze hanno in buona parte conservato quella caratura scientifica che comunque l’istituzione possiede, pur con le fisiologiche discontinuità, e hanno mantenuto l’impegno nell’azione di catalogazione, che è primaria per un’adeguata tutela, ben lungi dall’essere completata e aggiornata su tutto il territorio nazionale, ma che pure ha conosciuto episodi di ottimo livello come ArtPast e CulturaItalia, a dimostrazione del bene che si può comunque fare con finanziamenti adeguati e parimenti adeguata volontà politica. Una storia infinita questa della catalogazione, che non si esaurisce nel sempre imprescindibile lavoro sul territorio, bensì oggi comprende pure l’informatizzazione dei materiali posseduti nei ricchissimi archivi, documentari e fotografici, dei singoli uffici (per averne un’idea si veda la recente, documentata pubblicazione Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio, Venezia, 29 ottobre 2008, a cura di A.M Spiazzi, L. Majoli, C. Giudici, Crocetta di Montello (TV), 2010).
Converrebbe allora tentare un bilancio di questi istituti, ormai centenari e veri emblemi del sistema italiano di tutela, al contempo così avanzato e così disastrato. Capire cioè come sia mutata questa struttura dello Stato, soprattutto quali siano le innegabili, profonde differenze dalla “eroica” stagione degli anni Settanta e anche Ottanta, quando Soprintendenti di vaglia, perché storici dell’arte di primo livello, battevano a tappeto zone dimenticate d’Italia per recuperare alla conoscenza di tutti opere poco note e a rischio di dispersione o distruzione, sfornando pubblicazioni tutt’oggi imprescindibili. Interrogarsi cioè sul loro ruolo futuro; e soprattutto chiedersi quale sia la connessione con le facoltà universitarie che sarebbero i naturali bacini da cui drenare le forze necessarie al proseguimento del lavoro, cioè quelle di storia dell’arte e di beni culturali (con tutte le fluttuanti declinazioni presenti nei singoli atenei d’Italia). Giacché gli storici dell’arte, quegli stessi che quaranta o cinquanta anni fa erano cavalcasellianamente chiamati a controllare il patrimonio nascosto nelle pieghe del territorio, hanno visto interrotto, da almeno venti anni, uno degli sbocchi primi e preferenziali del proprio curriculum di studi, ossia proprio la Soprintendenza e il museo. Una connessione perfetta tra conoscenza e tutela, tra studio e protezione del patrimonio nazionale, che ha conosciuto una brusca frattura, i cui deleteri effetti si cominciano oggi a sentire con forza: mancanza di ricambio, carenza di personale, eccessiva burocratizzazione a discapito dei tecnici. Nonostante, ripetiamo una volta in più, la gretta litania dei “beni culturali petrolio d’Italia”, altamente offensiva per quelle legioni di archeologi e storici dell’arte preparati che si vedono costretti a dirottare le proprie competenze in altri settori, quando non a mortificarle del tutto. 
È innegabile che ci sia stato un depotenziamento mirato o comunque indotto delle Soprintendenze, causato certo dalle politiche forsennate (consapevoli o brutalmente ignoranti) dei governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni, da iscrivere nella più generale cornice dell’indebolimento della via statale alla cultura. Allo stesso tempo, però, si ha come l’impressione che l’istituzione stessa abbia stentato a rinnovarsi e a trovare nuove energie, sia per rispondere a queste politiche dannose, sia per aggiornare la via italiana alla tutela con le sfide d’inizio secolo. 
Si è ripetuto e si continua a ripete fino allo stremo, autorevolmente, che il personale delle Soprintendenze è vecchio, che l’età media dei funzionari supera i cinquantacinque anni, che andrebbero inserite nuove forze negli organici, che mancano i fondi anche per le banali spese di sopravvivenza burocratica: ma poi, in concreto, a questi alti lai non è mai corrisposta un’azione concreta, se non per sporadiche manifestazioni come il convegno dei Soprintendenti alla Certosa di Padula (9-10 settembre 2011), certo importante cenno di vita e vitalità. 
Il concorso, un concorso – l’unico dopo decenni per l’assunzione di nuovo personale da inserire in pianta stabile negli organici della tutela – c’è pure stato: per le soprintendenze ai beni storico-artistici si sono banditi cinque – dicasi cinque – posti in tutto per gli storici dell’arte, e solo per alcune regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto e Umbria). Un concorso di cui peraltro è già stato messo a nudo il ridicolo dei criteri di selezione, con domande che con la storia dell’arte non avevano niente a che vedere, andando dalle coltivazioni in Bulgaria a quiz di logica da spiaggia. Non finisce qui: mentre i vincitori sono stati chiamati nel maggio scorso, gli idonei non sanno ancora di che morte dovranno morire, cioè se saranno chiamati, come si spera, oppure no. Se ne deduce, dunque, che non c’era tutto questo bisogno di nuove assunzioni, e che tutto può tranquillamente andare avanti così. In effetti a vedere in che stato è ridotto il patrimonio culturale italiano – dalla Certosa di Pavia al Palazzo Orsini di Tagliacozzo (di cui si discute in questo numero di “Predella”) alla Reggia di Carditello – , viene forse da pensare che la situazione necessiti di una rapida inversione di rotta. 
Si stenta pertanto a capire quale sia la politica, se ce n’é una, di tutela, giacché è necessario nei beni culturali, come in qualsiasi altro settore dello Stato, contare su una programmazione di medio e lungo termine, che abbia bene evidenti gli obiettivi da perseguire. A controllare quanto è stato fatto, proprio in relazione alle Soprintendenze, si rende evidente quanto malgovernato sia questo comparto dell’amministrazione statale. Un solo esempio: è piuttosto recente l’apertura di due nuovi uffici, Brindisi-Lecce-Taranto (2004) e Lucca-Massa Carrara (2005). Al contempo tuttavia si affacciano anche le proposte di accorpare altri uffici, come le Soprintendenze ai beni architettonici e paesaggisti di Sassari e Nuoro (con Cagliari), o addirittura di sopprimerne alcuni (come la Soprintendenza ai beni storico-artistici di Trieste). 
L’idea guida non può essere quella del risparmio delle risorse, perché se così fosse evidentemente non funzionerebbe solo in certe situazioni e in altre no, sia geograficamente che per settori scientifici (beni archeologici, beni architettonici e paesaggistici). Esistono allora dati o ricerche hanno mostrato esserci minore necessità di tutela in Sardegna o in Friuli? Esistono prove che quelle Soprintendenze non funzionano e devono essere accorpate? Siamo sicuri che un’adeguata tutela dipenda dal numero degli uffici e non piuttosto dalla loro efficienza? Senza considerare come questo continuo separare e unire uffici, causi inevitabili problemi nella gestione quotidiana nel lavoro e nella gestione di uno strumento fondamentale per la Soprintendenza come l’archivio. 
Allo stesso tempo viene da chiedersi anche quali siano le responsabilità, senz’altro da individuare non per puntare l’ennesimo inutile dito, ma per capire quale parte dell’ingranaggio non funzioni, debba essere sostituito o semplicemente oliato. Per fortuna, trattandosi di amministrazione, si può fare affidamento su dati concreti, almeno dal punto di vista del personale e dei fondi impiegati. Per trovare queste responsabilità e garantire la correttezza dell’analisi, infatti, è proprio dai fatti concreti che bisogna partire, per poter derivare così un’idea complessiva e rigorosamente documentata, cioè condivisibile, non soggetta a processi interpretativi. I numeri, insomma, sono numeri. 
Il sito del Ministero dei Beni Culturali offre un buon monitoraggio della spesa, con le indicazioni delle varie spese, perfettamente leggibile anche da chi non è aduso a confrontarsi con tabelle e formule. Un chiaro passo in avanti verso quella trasparenza così necessaria al funzionamento della macchina statale, e un invito alla partecipazione alla vita della res publica. Crediamo quindi che si possa discutere sui numeri, e giudicare anche le spese effettuate, tanto più in un momento in cui la severità nell’analisi dei conti pubblici deve emergere per far fronte a periodi di crisi economica che, in Italia, hanno visto l’assoluta penalizzazione del comparto culturale e formativo (scuola e università). 
A considerare le urgenze, a partire dalla Certosa di Pavia, specialmente in questa stagione economica in bilico, non crediamo che i soldi pubblici manchino. Essi possono essere recuperati intanto all’interno del Ministero, cioè attraverso un’adeguata gestione della spesa corrente, a partire ad esempio dalla riduzione delle molte consulenze (451.000 euro lordi annui per i dieci “esperti e consulenti” del Ministro, cui si devono aggiungere “solo” i rimborsi spese – non quantificati – per il consigliere Giuliano Urbani), per riversarli invece sulla tutela attiva: assunzione di personale tecnico (e non amministrativo) per gli uffici periferici, finanziamento di restauri ecc. Poi proponendo un’adeguata ripartizione dei fondi rispetto all’intero bilancio statale. E qui tocca menzionare l’annoso problema della ripartizione delle voci di spesa del bilancio statale. La CGIL ha recentemente reso nota la curva discendente dello stato di previsione della spesa del Ministero dei Beni Culturali rispetto al totale della spesa statale: si passa dallo 0,39% del 2000 allo 0,23% del 2009, con un’ulteriore discesa prevista che arriva a toccare lo 0,19% nel 2011. Crediamo che lo Stato butti via i soldi in Ministeri di cui si stenta a capire la reale funzione, come quello per i rapporti con le regioni (sic), per l’attuazione del programma (sic), per i rapporti col parlamento (sic): invenzioni al limite del ridicolo se non fosse che in un momento di grave disagio succhiano risorse pubbliche, complicano la burocrazia, senza alcun beneficio per la società civile. 
Vedremo quindi come si comporterà il nuovo governo Monti che in parte ha accorpato e tagliato questa inutile paccottiglia, in parte l’ha mantenuta (resta il Ministero per i rapporti col parlamento, c’è quello per la coesione territoriale (che è quello per i rapporti con le regioni unito a quello sul federalismo), quello per gli affari europei, e quello per l’integrazione e la cooperazione internazionale (ma non bastava, per questi ultimi, quello degli esteri?). Perché proprio una razionalizzazione della spesa, conseguenza di un adeguato riconoscimento degli obiettivi primari dell’azione politica, potrebbe essere un vero punto di partenza e di rilancio. 
A patto che le Soprintendenze, specie quelle di punta, la smettano di cedere alle facili lusinghe degli 'eventi' e delle 'grandi mostre', dirottando fondi ed energie in kermesse effimere, spesso prive di spessore scientifico, fugaci fiere di vanità personali e interessi commerciali. 
È doveroso invece che le somme risparmiate vengano messe a frutto, investite cioè nella fondamentale missione a cui sono chiamate le Soprintendenze che non è solo di vigilanza, ma di “conservazione attiva” del patrimonio culturale, preservazione dell’identità del territorio. In una parola dell’immagine e del futuro del paese: in questo sono più che evidenti le connessioni con l’universo della ricerca e della cultura, che permettono di considerare le spese in questo settore, oltre che doverose, un vero investimento per la qualità della vita pubblica e del futuro della nazione. Meglio allora dire che con la cultura non si mangia, e gettare giù la maschera, distruggendo le radici e il futuro d’Italia, che ripararsi dietro un ridicolo slogan sul presunto petrolio, continuando invece a non fare alcunché, cioè a distruggere radici e futuro d’Italia. 
Obiettivi che tra l’altro, riguardando un settore cruciale per la vita della Repubblica italiana come il patrimonio culturale, non possono essere sottoposti a radicali mutamenti a seconda di chi sieda al governo. C’è la Costituzione a fare da guida. Tuttavia per riconoscere questi obiettivi di un’azione politica ci vuole una chiarezza di intenti e di programma. Ed è qui che si perdono i confini di un disegno politico complessivo, assolutamente necessario per proseguire nell’attività svolta sino a questo momento che ha contribuito alla conservazione del più ingente, prezioso e delicato pezzo del patrimonio italiano. Altrimenti si aprono quelle crepe entro cui sono lesti ad infilarsi agenti disgreganti, portatori di idee balzane come chiudere le Soprintendenze (manifestazioni di «uno Stato nemico dei cittadini») e far adottare i monumenti da istituzioni, fondazioni o gruppi di cittadini (come recita l’editoriale di Marco Romano sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 2011 cui ha risposto Tomaso Montanari su «Saturno blog» il 27 dicembre successivo).
In realtà tale politica, per l’appunto così necessaria, non esiste: è una continua navigazione a vista, sia che il ministro di chiami Galan, Bondi, Rutelli, Buttiglione, Urbani. Oppure Ornaghi, tecnico o non tecnico che sia.