google.com, pub-1908550161261587, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Pensieri sparsi: novembre 2013

domenica 24 novembre 2013

Bellezza funebre alla Certosa di Pavia

La bellezza della Certosa di Pavia fonda le proprie radici in una speculazione, anche edilizia.

Galeazzo Visconti, secondo di questo nome e primo principe pavese, costruì il proprio impero a Pavia suo malgrado, essendo stato esiliato dai suoi parenti milanesi.

Il completamento del castello di Pavia con il suo Parco fu il coronamento realizzato dal figlio Gian Galeazzo alle proprie mire di potere e che, per la propria effimera vanagloria, sconvolse anche le campagne a nord del suo feudo.

Espropriò migliaia di ettari per costruire il suo il giardino di casa con il personale tempio funebre.
Dal Castello di Pavia alla sua Certosa tutto fu coattivamente piegato sotto il proprio capriccio, con spregio delle regole e della morale, con litri di sangue versato a causa dell'uccisione di chi si opponeva ai voleri del principe.

Cosa resta oggi di tutto ciò?
Un magnifico ed un po' tetro mausoleo eretto alla gloria di chi forse non ha acquisito, con le proprie azioni terrene, i meriti di ascendere - direttamente - al paradiso.

O forse si. Il principe aveva il titolo di Conte di Virtù.

Chi siamo noi per giudicare, anche se la sua "virtù" non era certo quella teologale?



Su un orizzonte locale tutt’altro che prodigo di buone notizie vedere all’opera, per fronteggiare il lungo declino della Certosa di Pavia, diversi parlamentari, esponenti delle istituzioni locali, associazioni e voci della vita culturale e politica, è un dato sicuramente positivo.

I sintomi di decadenza del monumento si stanno aggravando in maniera tale da rendere non più procrastinabile un intervento e, proprio per proporre azioni opportune, sul dossier dedicato al monumento stanno intervenendo coloro che ne hanno a cuore il futuro e il destino.
A questo punto sembra possa ripetersi un copione analogo a quello che va in scena al capezzale di Pinocchio, quando la Fata Turchina chiede l’intervento di tre medici illustri – il Corvo, la Civetta e il Grillo Parlante – che ancora prima di cimentarsi su una diagnosi già si contrappongono.
Ricordate su cosa? Sul fatto che il burattino sia vivo o sia morto. Per il Corvo Pinocchio “ E’ bell’è morto…ma se per disgrazia non fosse morto allora sarebbe sicuro indizio che è sempre vivo”.
Di parere contrario la Civetta alla quale il monumento, pardon il burattino, pare ancora vivo “Ma se non lo fosse allora sarebbe segno che è morto davvero”.
A questo punto non può che intervenire il Grillo Parlante che, questo è il suo compito, cerca di dare voce al buon senso: “Quando non si sa quello che si dice, la miglior cosa che si possa fare è stare zitti”. E poi, quasi tra sé e sé, aggiunge che quel malato non gli è nuovo: “Io lo conosco da un pezzo”.
Sì, in effetti, la Certosa i pavesi la conoscono da un pezzo e ben prima che sui suoi acciacchi venisse convocato quell’organismo, la cui efficacia si spera posso essere proporzionale alla lunghezza e solennità della denominazione che si è data (Tavolo permanente per la conservazione, valorizzazione e promozione della Certosa), composto da tutte le istituzioni coinvolte quanto a competenza e a gestione.
Con la Certosa i pavesi hanno a che fare da oltre sei secoli. Forse di questo non facile rapporto sarà bene tener conto, almeno nel definire quale Certosa vogliamo ci accompagni nel futuro.
I “medici” giunti al cappezzale del Certosa si sono divisi su quantità di stanziamenti necessari a tamponare il degrado degli ambienti e sulle modalità di accesso dei visitatori, sugli scenari di marketing turistico per aumentarne il peso sul mercato turistico regionale (o addirittura nazionale) e sul ruolo del Pubblico e dell’eventuale iniziativa privata nella valorizzazione degli asset che stanno accanto al monumento. Tutti elementi importanti con cui è necessario fare i conti ma, tuttavia, si ha l’impressione che non ci si sia soffermati sulla premessa fondamentale: ovvero definire quale idea di Certosa si vuole fare propria, in quanto parte del “genius loci” di questa comunità. Su questa premessa sarebbe bene fare chiarezza prima di pensare a come collocare la Certosa come “prodotto” sul mercato turistico.
Il “genius loci” prevalente della Certosa pavese non è, perlomeno oggi, quello di luogo di spiritualità con tradizioni pari, ad esempio, a Subiaco o Camaldoli, Serra San Bruno o la ricostruita Montecassino.
La Certosa nata come monumento funebre dei Visconti è, pur nella commovente bellezza del monumento, la sintesi dell’assoluto dominio e dell’altera contrapposizione dei Signori del biscione alla città e al mondo circostante.
La Certosa – e forse questo potrebbe essere l’ulteriore filone narrativo offerto ai visitatori assieme a un’accurata riproduzione della quotidianità monastica quale quella proposta ad esempio a chi arriva al museo certosino di Serra San Bruno – è un sogno algido e di vertiginosa superbia sposato alla malattia del mattone di cui i Visconti erano portatori (a cominciare dal Castello di Pavia fatto erigere dal padre di Galeazzo in pochissimi anni a suon di impiccagioni di capomastri e di terrorizzanti corvée imposte alla popolazione).
Ovunque mettevano mano i Visconti riuscivano a imprimere un mortifero senso di possesso, di dominio, di morte che teneva distante la vita e raggelava la bellezza. Perfino la preghiera – in quelle celle e in quelle chiese, in quei chiostri e quei cori eretti coi soldi del Visconti – pareva doversi arrendere, prigioniera di una morsa che serrava, e serra, il cuore.

Come fare i conti con questo oneroso “genius loci” non lo so. Però penso che sia un tema degno di confronto prima di passare ai business plan, ai progetti di intervento e di valorizzazione, ai piani di rilancio turistico. Come riuscire a dare vita e ad avvicinare la Certosa – quella viscontea e monumentale certo, ma anche quella dei chiostri e delle celle di una comunità monastica, sì di clausura ma dentro il nostro tempo – ai bisogni dei nostri giorni è una domanda rilevante. Almeno per chi non la considera un reperto, pur prezioso, da collocare sul mercato.

di Giorgio Boatti (Diritto & Rovescio del 24 novembre 2013)

sabato 2 novembre 2013

Olivetti e il Movimento

«All'alba di un mondo che speravamo nuovo, in un tempo difficile e duro, molte illusioni sono cadute, molte occasioni sfuggite perché i nostri legislatori hanno guardato al passato e hanno mancato di coerenza o di coraggio. L’Italia procede ancora nel compromesso, nei vecchi sistemi del trasformismo politico, del potere burocratico, delle grandi promesse e delle modeste realizzazioni. Riconosciamo francamente una mancanza di idee, una carenza di uomini, una crisi di partiti».

Questo è l’incipit di "Democrazia senza partiti" di Adriano Olivetti (1949, Edizioni di Comunità).

Oggi i partiti sono entità ingombranti. Hanno perso tutti i valori che avevano le potenti organizzazioni ideologiche che elaboravano linguaggi e visioni del mondo, che imponevano con successo interminabili discussioni sulle formule politiche, la «programmazione democratica», il «compromesso storico» o la «terza fase». I partiti oggi non sono più pilotati da oligarchie ben strutturate, ma sono diventati «partiti personali», aggregazioni dai nomi incerti.

Gli scritti di Olivetti si scagliavano con energia contro i robusti «partiti organizzativi di massa», nati nell'ottocento con il socialismo tedesco. Olivetti riscopriva le riserve sui partiti politici di Rosmini, di Gioberti, di Minghetti e di Piero Gobetti, che in tempi diversi avevano denunciato la tendenza di queste entità politiche a favorire gli amici, a ingerirsi nella vita pubblica, ad opprimere gli avversari, a condizionare la giustizia.

Simone Weil, filosofa pacifista e mistica in "Appunti per la soppressione dei partiti politici" scriveva che i partiti anglosassoni contengono un elemento giocoso nella competizione che ne rivela l’origine aristocratica, mentre i partiti europei sono terribilmente seri, il che ne rivela l’origine plebea. I giacobini inaugurano la gloriosa tradizione per cui la formula vincente è «un partito al potere tutti gli altri in prigione»: i partiti sono «macchine di passione collettiva» che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse. Con loro trionfa la menzogna, «una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione».

«Nessuna fiducia a un governo dei partiti» sostiene il M5S e,  come disse euforico il cittadino Andrea Cioffi «demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio dell’Idea». L’Idea. Favoloso. Chi pensa a sé è fuori dal gioco. Spirito di sacrificio? Altro non è che disciplina di partito e sottomissione ai capi. Questa battuta sarebbe piaciuta a un bolscevico. Simone Weil ci avrebbe visto tracce della «lebbra» descritta sopra. Questa è la contraddizione, come lo è la proiezione utopistica del governo di Gaia che, nel 2054, vedrà il trionfo della Rete nei video animati di Casaleggio. La saggezza unificata mondiale che risolve problemi e non conosce dissensi. Un mondo in cui partiti politici, ideologie e religioni spariscono.

«Quali le conseguenze di questo nuovo tipo di regime rappresentativo in relazione al nostro tema? È possibile una vita politica senza partiti? Come si trasformerà in tal caso la politica?», chiede Olivetti. Risposta: «Il compito dei partiti politici sarà esaurito e la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza tra i mezzi e i fini, quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno a un’integrazione, a un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato. Questo è il compito che si è assunto il Movimento Comunità (che fu un movimento politico a tutti gli effetti a partire dal 1953 a livello locale, e dal 1958 a quello nazionale): tracciare una via atta a dimostrare che è possibile uno Stato senza partiti».

Si giunge così a «una nuova idea di sovranità, che si distacca sostanzialmente dagli immortali principi della rivoluzione del 1789 che legava l’idea di sovranità all'idea di suffragio universale». Non a caso è proprio il tema della sovranità, e di come muti in un’epoca in cui i partiti hanno perso la fiducia da parte dei cittadini, a rappresentare il cardine della riflessione di Revelli. In crisi è l’istituto della delega. Il docente di Scienze Politiche, in occasione dei referendum del giugno 2011 su acqua e nucleare, scriveva che sono il segno di una «rivendicazione di ri-appropriazione di ciò che è comune da parte della comunità: dei cittadini che ne rivendicano l’inalienabilità, al di là di ciò che possono decidere i loro rappresentanti politici».

È un «ricupero di sovranità», scrive Revelli, l’indicatore che la sfera pubblica è più ampia di quella politica. Come sancisce la Corte Costituzionale (sentenza 199/2012, 20 luglio 2012) in una «prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale». E, per evitare l’esito della volontà popolare sia vanificato (art. 75 Cost.), si afferma l’esistenza di «una sfera di decisione pubblica ‘protetta’ dall'intrusione della stessa rappresentanza parlamentare (dai protagonisti esclusivi della ‘democrazia rappresentativa’) qualora su di essa si fosse manifestata nelle forme costituzionali previste una esplicita ‘volontà popolare’ (del soggetto principe della ‘democrazia diretta’)». Peccato che poi l’esito referendario per il finanziamento ai partiti venga disatteso, e la volontà espressa nelle leggi di iniziativa popolare ignorata.

Olivetti ricorda che il problema, in sostanza, si riduce a un’unica questione: «non chiedete nulla, ma solo e soltanto che l’unica libertà che lo Stato e i partiti vi riconoscono a parole, quella di scegliervi i vostri rappresentanti, non sia una mistificazione. Giacché il mandato politico, nella sua vera essenza, è solo e soltanto un atto di fiducia degli uomini in un uomo». E invita a trovare una via mediana tra la rappresentanza come la conosciamo oggi e la dittatura della maggioranza in tempo reale come quella che vorrebbe Grillo. Revelli situa il tutto nel contesto più ampio di una democrazia «oltre» i partiti, ricordando che «il nesso tra la democrazia e la ‘forma-partito’ così come essa si è struttura nell'ultimo sessantennio non è affatto (…) esclusivo e indissolubile». Se ne discuta, insomma: è tempo.

La soluzione di Olivetti è vaga e terribilmente impregnata della «supremazia della Chiesa nel dominio dei valori spirituali», cui anche il laico dovrebbe volontariamente piegarsi. Ha tuttavia  il pregio di ricordarci che la democrazia rappresentativa è agonizzante e gettarsi nelle braccia della «democrazia istantanea» imbevuta di utopie  non è l’unica soluzione. Quando Grillo e Casaleggio citano il testo di Olivetti nel blog lo fanno per nobilitare la «guerra» ai partiti, ma non si rendono conto che si tratta di una alternativa al loro stesso modello.

Il problema è molto più ampio, bisogna valutare tutte le possibilità una a una, nel dettaglio; è indispensabile prima di ritrovarci con una democrazia tutta nuova, ma peggiore di quella attuale.

Democrazia senza partiti