google.com, pub-1908550161261587, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Pensieri sparsi: dicembre 2011

mercoledì 14 dicembre 2011

Una poesia sulle donne in Certosa

Nonostante la Certosa di Pavia sia un santuario dedicato alla Beata Vergine Maria Madre delle Grazie, i monaci hanno sempre vietato l'ingresso alle donne.

Non é una discriminazione di natura sessuale, poiché neppure gli uomini, salvo rare eccezioni, possono entrare indiscriminatamente nella clausura. Nei quasi mille anni di storia degli ordini monacali, sono state mantenute pressoché intatte tutte le regole certosine, così come quelle dei monaci benedettini.

Per capire la spiritualità e lo stile di vita monacale sono fondamentali gli scritti di uno dei primi monaci certosini, Guigo II. Scrisse le Meditazioni - sotto forma di lectio divina, un Commento al Magnificat e la Lettera sulla vita contemplativa, la Scala Claustralium o Scala Paradisi.

Questo testo è dedicato all'amico Gervaso, cui un tempo Guigo fu unito ma dal quale fu costretto a vivere separato.


Nei secoli, molte regine hanno espresso il desiderio di fare visita ai monasteri di cui erano benefattrici e con cui buoni avevano rapporti. Nei "Costumi di Guigo" era indicato il divieto di ingresso alle donne che consentiva l’assoluto isolamento dei monaci e favorirne la meditazione. Negli annali dell’Ordine troviamo un paio di episodi di visite femminili ai monasteri, che avvennero nel XV secolo, quando i priori di due certose consentirono l’ingresso ad una fondatrice e alla regina Isabella di Baviera. Per questi "strappi" alla Regola i rispettivi priori furono puniti dal Capitolo Generale con estrema severità, costretti ad una astinenza obbligatoria di svariati giorni, rischiando anche di essere deposti dall'incarico. Dopo questi fatti, fu sancita una "eccezione" alla Regola, che riguardante però solo le regine regnanti. Per le altre donne furono costruite cappelle apposite fuori la clausura per consentirne la sosta in attesa dei nobili e benefattori maschi, a cui era concesso di entrare.

Questa disposizione fu confermata nei secoli da varie Bolle papali.



La poesia e la leggenda. La realtà viene amplificata e, arricchita dalla fantasia popolare, spesso diventa come una favola. Si trasformano episodi reali e, celebrando i personaggi importanti per la storia di un popolo o di un luogo, si cerca di spiegare una caratteristica dell'ambiente naturale o dare risposta a dei perché.

Con il trascorrere del tempo la leggenda si trasforma in modo sempre più fantasioso.

Anche la Certosa di Pavia non è da meno ed ha le sue leggende.

Una di questa narra come Gian Galeazzo Visconti - il Conte di Virtù - nel fondare la Certosa, abbia deciso di vietarne l’accesso alle donne. C'è una recente poesia, dal titolo “Farò sü una Certosa…”  che descrive questo episodio di fantasia. Narra di come possa essere nata la sua avversione verso le donne dentro la Certosa. Fa anche riferimento ad un altro aneddoto: la visita di Elena di Savoia alla Certosa avvenuta nei primi anni del 1900. Qui si narra che la Sovrana abbia decretato che da allora in poi la Certosa fosse aperta ai visitatori di ambo i sessi.

Propongo la poesia sia in dialetto che in italiano

Farò sü una Certusa…

Galeàs una matina l’er a càcia in dal sò busch
quand che in mes ala maltina ‘l s’e truà trà ‘l brüsch e ‘l lusch.
Un cagnàs cuntra un quèi còs al baieva sfularmà:
forsi s’er levà la quàia o la legura intanà.
Sensa tèma, par guardà, al và ved renta i büscon
ma ‘l finisa in d’una mèlma masarà fin ai calson.
Pòrca cica, l’ha pensà, va che lòbia ch’ ò ciapà!
E tentand da tiràs föra la ris-cià da sprufundà.

“Dès da chi, chi l’e ca’m leva sa ghe in gir nan un masèr?”
Sla vedeva tanta brüta cl’à di sü fin’un patèr.
E gni föra da Guinsan, una squadra da mundin
chi cantevan: “Viscunt crèpa sèt un bòia, ‘n àsasin”
Quand an vist la màl paràda d’un lifròch inmaltanà,
gan fài sü ‘na sghignasàda che mai pü ‘s ripetarà.
“Tirem föra, parpaquàn, che sl’e vera ch’ som chi som,
chi ‘d par tüt, e anch’ in guèra, rèsti sempar mi ‘l padron”.

Pòri dòn! Tüt’a stramì, cun un ràm s’en dài da büt:
tir’e mòla, dasi dasi, l’an cundüt fin in sal süt.
Quand l’e stài sicür dla vita, i à cacià föra di bàl
restend lì sul, cul sò can, ca’l s’e mis adre a lecàl.
L’à spüdà ‘n tremend rusàri par vendèta sempitèrna
e quand l’à pudü levàs, l’à giurà: “Rechiemetèrna!
Chi, indè ch’ò fài la möja, farò sü ‘na gran Certusa
e mài dentar ga ‘ndarà ne una fiöla ne ‘na spusa”.

Lü l’e mòrt me tüti i àltar, ma süi sàcar paviment
i tàchèt d’una fantesca s’er nàmò pudü dà sent
fin che Elena Regina l’à decis da andà indi frà
par fàgh gràsia e fàgh unur cun un’opera ad pietà.
Sa pudeva digh ad nò? Par l’amur dal bon Gesü,
la Certusa l’e ‘na cesa o la gà un quèi còs ad pü?
“Venga vostra Maestade, benvenuta tra di noi,
anche noi vestì da frate siamo tutti figli suoi!”

La Reale pelegrina, la usèrva dapartüt,
ògni pàs ghe un munüment e la rèsta cul fià müt.
Caminand cul nas in sü, la spatàsa i sàcar prei
e la vör fermàs davanti a sti grandi màravei.
Ma in snugion e penitent, dadre ‘d le ga vegna ‘n frà,
ca’l gà in man un fögh brüsient, par brusàgh i sò pednà.
“Cosa fate?” La dumanda. “Per la regola si fa,
mai di femmina qui dentro un’impronta resterà”.

La vicenda ormài l’e ciàra. La regina l’à di ‘nsì
che dre ‘Le, d’ur’ in avanti, anch’ i dòn pudaran gni.
Gher in tòrt Gian Galeàs quand ca ieva sluntanà
parchè, inveci ‘d maledii, i a dueva ringrasià.
Gher da fàgh una belèsa ricamà dumà par lur,
parchè sensa, al Galeàs, l’avaris ben cüntà i ur!
Dès indè ch’èt fài la möja ghe ‘na gran bèla Certusa
cun ti dentar, dopu mòrt, ben arenta ‘la tò spusa”

Sciur Giuön, Giùgn 2005


Farò sü una Certusa…

Galeazzo un mattino era caccia nel suo bosco
quando in mezzo alla fanghiglia si è trovato tra il brusco e il losco.
Un cagnaccio contro qualcosa abbaiava imbestialito:
forse s’era levata la quaglia o s’era intanata la lepre.
Senza timore, per guardare, va a vedere vicino ai cespugli
ma finisce in un pantano macerato fino ai calzoni.
Accidenti, ha pensato, guarda che rogna mi sono presa!
e tentando di tirarsi fuori ha rischiato di sprofondare

“Adesso da qui, chi mi toglie se non c’è in giro neanche un massaro?”
Se la vedeva così brutta che ha recitato perfino una preghiera.
È uscita da Guinzano una squadra di mondine
che cantavano: “ Visconte crepa sei un boia, un assassino”.
Quando hanno visto la mal parata di un buontempone impantanato,
ci han fatto sopra una sghignazzata che mai si ripeterà.
“Tiratemi fuori, parpaquane, che se è vero che sono quel che sono,
qui dappertutto, e anche in guerra, resto sempre io il padrone”.

Povere donne! Tutte spaventate, con un ramo si sono date da fare:
tira e molla, adagio adagio, l’han condotto sull’asciutto.
quando è stato sicuro della vita le ha cacciate fuori dalle palle
restando lì solo col suo cane che si è messo a leccarlo.
Ha sputato un tremendo rosario per vendetta sempiterna
e quando ha potuto alzarsi, ha giurato: “ Requiemeterna!
Qui nel punto dove son finito a mollo costruirò una Certosa
e mai dentro v’entrerà ne ragazza ne sposa”.

Lui è morto come tutti gli altri, ma sui sacri pavimenti
i tacchetti d’una fantesca non si son potuti sentire
finché Elena Regina ha deciso di andare dai frati
per fargli grazia e fargli onore con un’opera di pietà.
Si poteva dirle di no? Per l’amor del buon Gesù
la Certosa è una chiesa o ha qualche cosa in più?
“Venga vostra Maestade, benvenuta tra di noi,
anche noi vestiti da frate, siamo tutti figli suoi”.

La Reale pellegrina, osserva dappertutto,
ogni passo c’è un monumento e rimane col fiato interrotto.
Camminando col naso in su, calpesta le sacre pietre
e vuole fermarsi davanti alle grandi meraviglie.
Ma inginocchiato e penitente, dietro a lei viene un frate
che ha in mano un fuoco ardente, per bruciare le sue pedate.
“Cosa fate?” Lei domanda. “Per la regola si fa
mai di femmina qui dentro, un’impronta resterà”.

La vicenda ormai è chiara, la Regina ha detto così
che dietro a Lei, d’ora in avanti, anche le donne potranno venire.
Era in torto Gian Galeazzo quando le aveva allontanate
perché, invece di maledirle, le doveva ringraziare.
C’era da fare una bellezza ricamata solo per loro
perché senza, Galeazzo, avrebbe potuto contare le ore!
Adesso, dove ti sei bagnato, c’è una gran bella Certosa
con Te dentro, dopo morto, ben vicino alla tua sposa”.

Giovanni Segagni - Giugno 2005

domenica 11 dicembre 2011

Un brano di Mino Milani per la Certosa

Questa nota nasce dalla mia recente visione del film "Fantasma d'amore" tratto dal romanzo scritto nel 1977 da Mino Milani.

Il film, diretto da Dino Risi, narra la storia di un uomo, Nino (Marcello Mastroianni) che, per puro caso, incontra sull'autobus la sua prima fidanzata Anna (Romy Schneider).

Le immagini dei primi anni '80 fotografano i luoghi di Pavia e di altri luoghi della provincia pavese, moderni e antichi allo stesso tempo, che sono ancora chiaramente riconoscibili..
La curiosità mi ha spinto a leggere il romanzo, che ho facilmente preso in prestito nella biblioteca di Certosa di Pavia.

Non voglio però raccontare qui la storia e le tragiche vicissitudini dei personaggi, ma cercare un'altra chiave di lettura.

Come purtroppo spesso accade, l'adattamento al cinema sacrifica molto dell'opera originale.

Un brano del romanzo, infatti non è stato ripreso dal film.

La storia raccontata dall'autore pavese è densa di tanti altri messaggi e ricche suggestioni. Mi ha colpito molto, proprio nel primo capitolo, leggere un brano che riguarda molto da vicino il Monumento della Certosa di Pavia.

E' di una eccezionale attualità.

Mi sono permesso di trascriverlo qui di seguito e vi invito a leggerlo, facendo attenzione che Mino Milani lo scrisse nel 1977.
Il giorno dopo ci fu la visita alla Certosa: “Lo so che è un sacrificio, per te, ma mi spiacerebbe se la gente pensasse che tu ci snobbi e, guarda, dovresti proprio venire” mi aveva detto Teresa. Sì, certo; le avevo proposto di andarci in automobile, avremmo potuto dare un passaggio a qualcuna delle socie più anziane, per esempio, o a monsignore. Ma lei fu irremovibile: era stato noleggiato l’autobus, e si sarebbe andati in autobus, si trattava di sette chilometri, infine, e lei era la presidentessa, me ne ricordavo? Sì, certo, me ne ricordavo, e così feci il viaggio in piedi, per lasciare seduta questa o quella signora. In piedi con me c’erano altri mariti, sorridenti, soddisfatti e infaticabili nella conversazione. Un paio di volte colsi lo sguardo di Teresa, che si posava su di me un po’ perplesso e un po’ preoccupato, e accennai, allora, e sorrisi a dire che tutto andava bene e che il sacrificio non era poi così grosso.

“La vedo un po’ stanco, caro dottore”mi disse il professor Neri, in piedi accanto a me. Ma guarda questo scemo, pensai.

“Eh, che vuole, professore? Il lavoro”

“E gli anni. Ogni anno ne passa uno”

“Non ci si scappa”

“Ma lei è ancora tanto giovane! Ah, conosce il ragionier Chiarini?” ed era la terza volta che mi presentavano il ragionier Chiarini, marito di una consigliera.

“Molto onorato” dissi.

Il professor Neri spiegò “Il dottore è marito della nostra presidente” e il ragionier Chiarini fece un breve inchino.

E intanto eravamo arrivati e si cominciava a scendere, nel grande piazzale, con i pioppi altissimi - un ultimo pennacchio di foglie gialle, lassù in cima, contro il cielo azzurrino.

Guidò la visita un frate, tonaca bianca e nera, aria furbetta.

Rispondeva alle domande sicuro e paziente, illustrava con autorità, scioltezza, ampi gesti eleganti, andando di quadro in quadro, di angolo in angolo, con passo svelto, e noi lo seguivamo aggruppati e timorosi di perdere qualche sua parola. Un accidente. Perché quello scemo di professor Neri mi aveva trovato un po’ stanco? Be’, forse un po’ lo ero, sì: ma avrei voluto vedere lui, lavorare come lavoravo io. Del resto, d’accordo, un certo periodo di riposo m’avrebbe fatto bene.

Eravamo ora davanti a un grande affresco, e il frate accennava, levando il braccio, con la tonaca che ricadeva elegante a scoprirgli il polso, e diceva: “...ma qui, anche una testimonianza opposta: quella cioè della inciviltà di un popolo. Il buio dopo la luce, ma questa forse è una espressione troppo forte. Ne troveremo un’altra, insieme. Loro avranno veduto come, alle statue dei bassorilievi e delle sculture sulla facciata, manchino le teste... Sì: la testa, staccata dal fondo, è più esposta al danneggiamento, ma..” una pausa, le mani aperte e levate “ma in verità, quelle teste non ci sono più non a causa, o meglio non solo a causa degli incidenti occorsi nei secoli, del logorio, dell’invecchiamento, diciamo naturale d’ogni cosa creata... quelle teste mancano perché sono state rubate. Sissignori. .. cioè, sissignore : rubate. Le figure delle fasce marmoree sono state decapitate”.

Il frate attese che si tacesse il solito mormorio di raccapriccio, e continuò: “Ma almeno, allora, si trattava di furti sacrileghi, nel senso che i visitatori erano persuasi, nella loro fede, di portarsi a casa delle reliquie, portandosi appresso quelle teste. Ora, invece, a parte il saccheggio delle opere d’arte, i furti nei musei e nelle gallerie... e tutti a fini non certo religiosi!, oh, ora non si visita più un monumento di fede, quale è precisamente questo, non dimentichiamolo, per senso religioso!... Guardate qui : graffiti. Ne sentiamo parlare : american graffiti, naturalmente... e ce li troviamo in casa! No, no: non abbiamo nulla da imparare! Sanno?, noi italiani dovremmo mettere tutto sotto vetro e sotto grata, sotto chiave, insomma. Graffiti! Guardino: con un chiodo, un temperino, che so?, una forcina per capelli, guardino quanti visitatori hanno scritto qui il loro nome! Guardino” e faceva scorrere l’indice affusolato su quel reticolo biancogrigio di nomi, di date, di segni, che occupava la parte più bassa dell’affresco.

Qualcuno alle mie spalle disse, sopra il brusio scandalizzato che si faceva sentire: “Io pubblicherei tutti questi nomi in un libro, avvertendo: ecco i nomi dei nuovi vandali!”.

“Giusto!”

“Macché libro! Multe, ci vogliono, e salate! Costringerli a pagare le spese di restauro!”

“Eh, ma bisognerebbe prenderli sul fatto!”

“Per me, basterebbero più guardiani”

“Che facciano il loro dovere, sì”

“Ecco,” aveva ripreso il frate “ecco l’idiozia, parola grossa, ma mi permettano di usarla, l’idiozia di certa gente « Pietro R., 23 maggio 1968»... Evidentemente questo signor Pietro si sentiva molto importante. E questo? «Luigi Bellotti fece» Capiscono?... Fece: come scrivevano i grandi pittori! Si vanta, anche, questo signor Bellotti!” ed era diventato quasi un gioco, e le signore del circolo si protendevano a leggere nomi e date; e il frate continuava: «Angelo e Marisa, cinque mars»... marso: anche gli errori d’ortografia, ora... e questi?, questi che si giurano amore, con i nomi contornati da un cuore?... Guardino:«Nino e Anna, ieri e oggi»”.

Li avevo visti mentre li leggeva, un istante prima. Quei nostri nomi, Nino e Anna, ieri e oggi. Una luce obliqua. Un senso di stupore rinnovato e profondo, un attonito, lieve tuffo al cuore. Ancora. Restai immobile, mentre il gruppo, sazio di deplorazione, proseguiva. Nino e Anna, ieri e oggi. La fotografia caduta dal libro, la moneta sulla scrivania.., ma questa volta...

Guardavo. Strano. Via, perlomeno era strano. Una serie di coincidenze così serrata. Come se...

“Nino, vieni?”

Teresa mi chiamava, mi volsi sussultando, risposi: “Sì, arrivo” e guardai ancora. Nino e Anna, ieri e oggi. In un cuore. Niente di particolare, si capisce, c’erano dopo tutto schiere di Nino e di Anna che si amavano e visitavano la Certosa. Al diavolo, di una cosa ero certo: quel graffito non era opera mia. Non ero mai stato un moderno vandalo. Ero andato alla Certosa con Anna, chi non ci va?, ma né io né lei...

“Allora, Nino?”

M’affrettai verso il gruppo.
In questo brano è evidente e molto chiara la testimonianza dell'autore che il vandalismo in Certosa non è un fenomeno solo attuale e che già allora si parlava di incuria e di abbandono di questa bellezza architettonica. Continua con costanza, qui e in Italia, l'inesorabile "deriva" dei Monumenti. Oggi, ancor più di ieri, è importante che chi è sensibile a queste tematiche si impegni per cercare di tutelare e proteggere il nostro patrimonio artistico e culturale dai vandali e dagli speculatori.