google.com, pub-1908550161261587, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Pensieri sparsi: gennaio 2011

sabato 29 gennaio 2011

Bernardino Dè Rossi - pittore pavese

Ovvero una riflessione sui "tesori nascosti".

Sulla Provincia Pavese di oggi ho letto l'articolo dedicato al "tesoro" recentemente restaurato a Pancarana. L'autore di questo affresco è il pittore pavese Bernardino Dè Rossi. La cosa particolare è che si tratta dell'unico artista pavese che ha dipinto nella Certosa di Pavia nel periodo tra il 1490 e il 1510.

Qui partono i miei pensieri. 

Perché, tra le tante opere che qui sono custodite, poco tempo fa - durante una speciale visita al Monumento - ho potuto ammirare un "tesoro nascosto": il loggiato detto "dei Novizi"

Purtroppo questa zona della Certosa di Pavia, situata nella parte esposta a sud all'esterno del chiostro grande, non é normalmente visitabile. Con le normali visite guidate dai monaci non si arriva sin qui.

Ma è proprio qui, sulla parete dove inizia questo porticato, che c'è un affresco molto particolare. Rappresenta un albero e su i suoi "rami" sono dipinte tante figure di monaci adoranti. Nel cielo sopra la pianta, su di una nuvola, vi è la Madonna col Bambino e gli Angeli intorno a loro.

Non so chi sia l'autore di questo affresco, ne i personaggi che vi sono rappresentati. I fregi posti a corona sono - molto probabilmente - gli stemmi di famiglie e casate legate al Monastero. 

Chissà.

Certosa di Pavia - loggiato dei Novizi

Il tesoro di Pancarana
Chissà se don Pasquale Guerra pensò a un miracolo, quando nel 1895 scoprì nella sua piccola chiesa vicina al Po frammenti di pittura nascosti dall’intonaco; forse gli tremò la mano, mentre scriveva al direttore dell’ufficio Monumenti di Torino per informarlo dell’accaduto.
Di certo l’anno seguente la chiesa di San Pietro e Paolo di Pancarana divenne monumento regionale, e nel 1907 il parroco Domenico Franzosi, successore di don Pasquale, ricevette l’annuncio: i più belli affreschi tra quelli emersi dalla calce erano stati dipinti nel 1505 dal pavese Bernardino Dè Rossi, noto agli storici dell’arte per avere affrescato alcuni ambienti della Certosa.
Fu grazie alla lotta trentennale di don Franzosi, per ottenere finanziamenti, che le opere vennero restaurate prima della seconda guerra mondiale: oltre a episodi della vita di Cristo e alle figure di santi, si scoprì la firma di Dè Rossi, “B’nardinus De Rubeis”.
Pancarana è un paesino di circa trecento abitanti, a una decina di chilometri a nord di Voghera: un avamposto dell’Oltrepo, per chi arriva qui da Pavia, che però vede le colline all’orizzonte e si nutre dell’aria del fiume, e della nebbia che in questo periodo si addensa sui campi ocra e verdi.
Oggi il custode del tesoro della chiesa di San Pietro e Paolo (costruita nel ’400) è don Maurizio Ceriani, parroco di Casei Gerola e studioso dell’arte locale.
Il primo affresco che illustra raffigura il martirio di Sant’Agata, attribuibile a Dè Rossi insieme all’adorazione dei Magi, al battesimo di Gesù e al martirio di Santa Lucia (mentre agli altri dipinti in buone condizioni hanno probabilmente lavorato gli aiutanti del pittore): «Dalle scene di martirio - spiega don Maurizio - possiamo capire quanto all’epoca fosse importante il ruolo dei “santi taumaturgici”. A Sant’Agata di Catania vennero strappati i seni con tenaglie roventi: divenne così la patrona delle mamme in fase di allattamento. Mentre Santa Lucia, a cui vennero cavati gli occhi, diventò la patrona della vista. I personaggi che hanno subìto un martirio particolarmente cruento - dice don Maurizio - hanno suscitato nei secoli una grande commozione popolare, e i credenti, nell’assenza di cure, cercavano in loro protezione.
Con la scienza di oggi forse queste cose ci fanno sorridere, ma pensiamo anche solo a cent’anni fa quanto fosse un problema, per una mamma, la mancanza di latte». Tra gli affreschi della chiesa di San Pietro e Paolo don Maurizio fa notare i segni del committente (un certo Farina): «Nel battesimo di Gesù - dice il parroco - oltre a Giovanni Battista c’è San Pietro: impossibile, secondo il Vangelo. Ma d’altronde questa chiesa è intitolata al santo».
Bernardino Dè Rossi arrivò a lavorare a Pancarana perché la chiesa era una dipendenza della Certosa. La storica dell’arte Luisa Erba spiega che «la fine del ’400 e l’inizio del ’500 sono un periodo di grande fioritura artistica per il territorio: in età sforzesca erano moltissime le botteghe che lavoravano a un buon livello, a Pavia e nei dintorni».
Gli ultimi restauri nella chiesa risalgono a tre anni fa: «A metà anni ’90 - dice Paola Viola, sindaco di Pancarana - è stato fatto un intervento sui muri contro l’umidità, poi nel 2007 abbiamo chiesto come Comune un aiuto alla Fondazione comunitaria della Provincia di Pavia, e insieme ai fondi della parrocchia si è lavorato direttamente sugli affreschi, con un restauro conservativo. Sarebbero necessari ulteriori interventi perché la chiesa è sempre piena di umidità, ma purtroppo le nostre risorse sono scarsissime».
Daniele Ferro 
"La Provincia Pavese" del 28 gennaio 2011

domenica 23 gennaio 2011

I tesori del Museo della Certosa di Pavia

Sabato 18 Dicembre 2010 la dott.sa Letizia Lodi, direttore del Museo, ha presentato un ciclo di conferenze con contributi multimediali che, con una serie di incontri con studiosi, illustrano le opere ed i tesori custoditi nel Museo della Certosa di Pavia. Gli esperti presentano il loro lavoro e l’aggiornamento sull’opera che viene presa in esame. Alla conversazione segue la presentazione dell'opera esposta nel museo.

Al primo incontro la stessa direttrice ha parlato diffusamente della Pala di Bartolomeo Montagna ed ha illustrato come sono stati effettuati i lavori di restauro.

Gli incontri sono proseguiti il  22 Gennaio 2011, con Edoardo Villata (Università Cattolica di Milano) storico dell’arte ed esperto di storia delle arti lombarde che ha diffusamente illustrato il dipinto "Il Cristo dei Dolori". L'opera rappresenta una testimonianza pittorica che si può ammirare nelle sale del Museo della Certosa di Pavia si collega direttamente ad un'opera famosissima del  pittore e architetto Bartolomeo Suardi detto Bramantino (Milano, 1465 – 1530).

Infatti la tela non è solo una copia della famosa opera "Il Cristo risuscitato" del Bramantino custodito al Museo Thyssen - Bornemisza di Madrid (la scheda è in spagnolo e inglese), ma può essere definita come una interpretazione - forse più intima e rassicurante - dell'originale.


Bramantino- Il Cristo risuscitato


Sabato 19 Febbraio 2011
Furio Rinaldi (dottorando Università di Roma 2)
Un’“aria angelica et molto dolce” 
Perugino: dipinti e disegni per la Certosa

Sabato 19 Marzo 2011
Dario Trento 
(Accademia di Belle Arti di Brera, Milano)
Bernardino Luini e i Certosini di Pavia

martedì 18 gennaio 2011

L'uomo che piantava gli alberi

Jean Giono, francese, nacque in una famiglia di origini italiane in Provenza, a Manosque il 30 marzo 1895 e qui vi morì il 9 ottobre 1970. Visse quasi tutta la sua vita sempre nella sua terra d'origine. Questo suo breve racconto è una piccola favola moderna scritta nel 1953.

Il racconto si legge, tutto d'un fiato, in pochissimo tempo. Con i toni di un acquarello, ha la potenza di una grande avventura epica. Una piccola grande impresa compiuta da un piccolo grande uomo, semplice e illetterato, che fa diventare verde e fertile una terra prima brulla e desolata.

Questo racconto ci aiuta a ritrovare la fiducia e il coraggio che serve per affrontare le difficoltà della vita quotidiana. Si scopre la consapevolezza che... se si vuole, si può fare.



Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.

Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drome, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drome e una piccola enclave della Valchiusa.

Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.

Attraversavo la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi ritrovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.

Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una belva molestata durante il pasto.

Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui.

Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.

L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.

La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.

Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.

Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui; il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili.

Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi.

Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che lottano tra di loro e per il miscuglio dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina.

Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti, vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.

La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.

Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.

Dopo il pranzo di mezzogiorno ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla.

Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.

Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose.

Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che nel giro di trent’anni quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato la vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare.

Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo.

Ci separammo il giorno dopo.

L’anno seguente ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.

Finita la guerra mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte.

Il paese era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio.

Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantare.

Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.

Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercé dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè al 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni dove sospettava, a ragione, che ci fosse umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise.

Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell’acqua, in tempi molto antichi.

Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora vestigia nelle quali gli archeologi avevano scavato trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’ d’acqua.

Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini i fiori e una certa ragione di vivere.

Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità?

A partire dal 1920 non ho mai passato più d’un anno senza andare trovare Elzéard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce.

Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità.

Nel 1933 ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell’epoca Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente.

Nel 1935 una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente , non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto la tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio potere di seduzione persino sul deputato.
Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente andammo insieme a cercare Elzéard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione.

Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio.
La costa che avevamo percorso era coperta d’alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto di alberi.

Prima di partire il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. “Per la semplice ragione”, mi spiegò poi, “che quel signore ne sa più di me”. Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in lui, aggiunse: “Ne sa più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!”.

E’ grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo, furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli.

L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Perché le automobili andavano allora col gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva ignorato quella del ’14.

Ho visto Elzéard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi portò a Vergons.

Nel 1913 quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate.

La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù.

Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento nella foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione.

In generale Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai diciotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare.

Da lì proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campicelli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava.

Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti a poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri.

Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier.

Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto i costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.

Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all'ospizio di Banon.



Su Youtube il film d'animazione premiato con l'Oscar nel 1988

Basta poco, basta un gesto che contiene tutto l'amore per la natura, la terra e il mondo.
Con la semplicità di un piccolo gesto.
Seminare un seme.

lunedì 17 gennaio 2011

I doveri di chi amministra la "cosa pubblica"

Chi amministra la "cosa pubblica" ha il dovere di non danneggiarla e di non permettere che qualcun'altro lo faccia.

Chi amministra la "cosa pubblica" ha il dovere di prendersi cura degli interessi di tutti i cittadini e non solo di quello di pochi.

Chi amministra la "cosa pubblica" ha il dovere civico di conservarla e non può permettere che l'interesse di pochi distrugga il "bene comune".

Chi amministra la "cosa pubblica" ha il dovere di impedire tutte le azioni che causano più danni che benefici.

Chi amministra la "cosa pubblica" ha il dovere di sapere quali saranno i "costi sociali" provocati dai progetti che autorizza.

Chi amministra la "cosa pubblica" deve essere come un buon padre di famiglia che difende il suo figlio più debole da quello più prepotente e malvagio.

Chi non si comporta in questo modo è degno di essere chiamato Amministratore?

Questo lavoro è così difficile che le scelte finali non dovrebbero essere lasciate a chi viene di fatto "ricattato" da "poteri" più forti di lui. L'errore più grave che si può fare in questi casi è quello di essere costretti a scegliere il male minore, quando invece si deve riuscire a pretendere il bene maggiore per tutti.

Dov'è e chi è l'arbitrro?


Serve un bel fischio del rigore
16 gennaio 2011
I tempi, il contesto, gli sconcertanti supporti con cui la proposta di Centro Commerciale a Borgarello ha ottenuto semaforo verde sottolineano tre gravi aspetti della severa crisi della rappresentanza politica in atto in provincia di Pavia. Nonché in buona parte delle sue istituzioni locali e nelle sue leadership di partito.
Rispetto ai tempi è indicativo come questo progetto di centro commerciale, che da oltre due lustri veleggia sopra una vasta area di Borgarello, riesca a decollare proprio mentre l’amministrazione di quel Comune è nelle mani non dei rappresentanti eletti dai cittadini ma di un commissario designato dal prefetto. E questo per le conseguenze dello svolgersi della nota inchiesta giudiziaria.
 Tra quattro mesi le urne decideranno chi reggerà Borgarello per i prossimi cinque anni. Ma, evidentemente, centoventi giorni di attesa devono essere sembrati troppi lunghi a qualcuno. Così la decisione sicuramente più rilevante mai assunta per il destino di Borgarello, e non solo di Borgarello, vista la vastità dell’area coinvolta, viene presa in una situazione di rappresentanza azzoppata. Sancisce un fatto rilevantissimo e lo fa in assenza di un sindaco, di una giunta, di un consiglio comunale. E’ vero che gli amministratori di Borgarello avevano fatto in tempo a varare il progetto. Lo avevano fatto con una fretta indiavolata, appena prima di tornare a casa. Però - e forse questo lo si capisce solo adesso - in questo modo stavano rendendo l’ultimo servizio alla proposta di centro commerciale il cui dossier è arrivato davanti al Ponzio Pilato, o ai variegati Pilati che lo dovevano autorizzare, portato da una figura «neutrale» quale quella del commissario prefettizio.
 Veniamo ora al contesto. Il contesto è «pilatesco». Ovvero contraddistinto da un vuoto di potere in cui tutti si lavano le mani pur avendo le mani in pasta nell’elaborazione di questa scelta. Un elemento ulteriormente implementato dal fatto che anche l’amministrazione provinciale, che pure un ruolo ben diverso avrebbe potuto avere nella questione, è prossima al rinnovo. Tra centoventi giorni va alle urne. Anche lì sarà una giostra di volti vecchi e nuovi che si palleggeranno responsabilità trascorse e neutralità sospette. Una situazione dunque dove l’ambiguità pare la rotta migliore. Dove ai politici più navigati sembra saggio esserci e non esserci. Lasciando che altri si spendano per allargare il varco - adesso o mai più - ad un progetto che per cento e una ragione avrebbe dovuto essere respinto.
 E qui si giunge agli sconcertanti supporti. A preziosi alleati che nelle persone dei sindaci, targati partito democratico, di Certosa e di Giussago, fanno di fatto da levatrici al centro commerciale di Borgarello. Non una parola da parte loro sull’impatto devastante del progetto su Pavia e una vasta area del Pavese. Non un solo argomento che contesti gli scenari autorevolmente evocati sulle conseguenze negative circa la qualità dello sviluppo territoriale e il tracollo ulteriore di una viabilità già in grave affanno. In nome di calcoli legati a ristretti benefici territoriali per le loro località i due sindaci Pd si inchinano a una scelta che divora territorio e incrementa una spirale di un lavoro sempre più precario. E dove il saldo occupazionale, realisticamente, non sarà affatto positivo.
 Il progetto di centro commerciale - ormai è chiaro - ha camminato su piste dove le impronte di uno schieramento, e del suo fronte opposto, hanno mescolato i passi. E pare essere riuscito a toccare l’agognato traguardo. Nonostante lo sdegno furente degli amministratori locali di Pavia e di San Genesio. Alla faccia dei gelidi fulmini sui reprobi che i vertici del Pd pavese fanno calare sui sindaci «disobbedienti» che però rimangono nel loro partito. E coi quali si sta fianco a fianco persino in giunte, come quella di Giussago, di cui lo stesso segretario provinciale del Pd è parte significativa.
 A questo punto sarebbe salutare un chiarimento forte e chiaro che dall’uno e dall’altro schieramento sancisca un impegno netto e duraturo contro tempi, contesto e sconcertanti supporti che hanno dato semaforo verde al centro commerciale di Borgarello.
 Forse è ancora possibile far sentire - tutti assieme - un fischio di rigore che fermi il gioco. Non per sempre ma, almeno, fino a quando, tra centoventi giorni, i cittadini saranno chiamati alle urne. Per dire, in modo chiaro e irrevocabile, come vogliono che sia il futuro di questa provincia.
- Giorgio Boatti

domenica 16 gennaio 2011

Caro Sindaco di Certosa di Pavia, ti scrivo

questa è la lettera, originale, scritta da una cittadina di Certosa di Pavia al nostro sindaco, pubblicata (con alcune omissioni) dal quotidiano "la Provincia Pavese" il 14 gennaio 2011.

Gentile Sindaco,

Ho appreso ieri che il Centro Commerciale di Borgarello sta per ottenere il via libera definitivo.

Inoltre ho letto che la sua approvazione al progetto deriva dal fatto che per Lei è fondamentale che assieme a questa distesa di cemento sarà realizzata anche la tangenziale per Certosa di Pavia e che saranno svolti interventi di manutenzione sul viale del Monumento.

Mi permetto di dirle che sono profondamente delusa.

Delusa perchè credo che questa zona del Pavese sia già stata sufficientemente deturpata dalla cementificazione. 
Abbiamo centro commerciale a San Martino Siccomario, un altro sulla Vigentina, c’è il centro commerciale di Montebello a 30 km, quello di Rozzano a meno di 30. Davvero ne serve un altro?
Delusa perchè speravo che Certosa, dove risiedo da due anni, diventasse un punto di interesse CULTURALE e non per il bieco consumismo di massa. 
Speravo che l'amministrazione cittadina avrebbe puntato sulla riqualificazione del territorio, non sulla distruzione del medesimo.

Quello che mi aspetto tra qualche anno sarà un panorama come quello della Strada Vigevanese accanto alla Tangenziale Ovest di Milano, o per stare all'interno della nostra provincia, di quello della Statale dei Giovi nella tratta che attraversa San Martino Siccomario.

Lei trova tutto questo esteticamente gratificante e ritiene che quando si parla di valorizzazione del territorio l'unica risposta siano i capannoni industriali?


Certo Certosa avrà la tangenziale. Che bella vittoria! 

In compenso, nel 2011, mi tocca abitare in un paese dove l'Ufficio Postale non è in grado di ospitare 5 persone in fila indiana tanto è  piccolo e chi deve prelevare con il Postamat deve fare la fila insieme a chi deve spedire delle lettere (ma i bancomat non sono stati inventati apposta per evitare file agli sportelli?)
Un paese dove c'è un Monumento strombazzatissimo che tutti dicono di voler valorizzare e poi da più di un anno la parte di muro di cinta che è crollata è ancora solo transennata ma di interventi nemmeno l'ombra.
Ancora, un paese dove non si è in grado di ritirare la carta tutte le settimane ma solo ogni 15 giorni, con effetti estetici degni delle bidonville di Calcutta. Davvero un bello spettacolo per i potenziali “extra turisti” che, di passaggio dal centro commerciale, potrebbero avere voglia di vedere IL MONUMENTO.

MA… avremo la tangenziale e sarà sistemato il Viale del Monumento! Certo. 

Mio marito ha partecipato a delle riunioni convocate dal Comune questa estate in cui era stato spiegato che  nel Piano di Governo del Territorio c'era spazio per piccole attività commerciali, la nuova sede delle Poste, una tangenziale, certo, ma che il Centro Commerciale non rientrava in questi progetti, poiché si temeva che potesse annullare i pochi piccoli negozi presenti in Paese.


Ora i piccoli negozianti di Certosa non saranno più danneggiati solo perché ci "regaleranno"  una strada? E se i piccoli negozi chiudono per la concorrenza del centro commerciale, come si può ottenere un vantaggio economico dall’incremento di passaggi in paese? Rimarrebbero solo le pizzerie e (forse) la Farmacia…

 Se questo ecomostro con gli annessi che si porta dietro otterrà il via libera definito metterò in vendita il mio appartamento perché se avessi voluto vivere in un ambiente squallido e abruttito avrei cercato casa altrove. Mi rendo conto che questo, fossimo anche in 1000 ad andarcene, non sarebbe un deterrente perché non percepite più l’ICI sulla prima casa, ma spero che almeno si fermi 5 minuti a riflettere su quanto le ho scritto..

Cordialmente
Sarah Toffanin
Certosa di Pavia

Le campagne a Certosa di Pavia

venerdì 14 gennaio 2011

i nuovi passatempi in provincia di Pavia

Ancora una volta i soliti "ignoti" si "divertono" a distruggere quello che gli capita a tiro. 

Forse questi imbecilli si divertono di così.
Forse... forse...
Non so'...
Mi vengono dei dubbi...
Ma no...
Non si può sempre pensar male...
Poveri ragazzi... cosa possono fare per divertirsi un po?
Quasi quasi gli costruiamo un bel Centro Commerciale...
A destra della statale andando a Pavia (o a sinistra andando verso Milano) c'è tanto spazio...
Ma si... destra, sinistra ... che differenza fa...

In questi ultimi giorni siamo forse stati un po' distratti dalla vicenda del Centro Commerciale di Borgarello, ma la campagna di Pavia è teatro di episodi che passare sotto la voce "vandalismo" per me è sbagliato.

Chissà perchè vengono sempre presi di mira sedi e luoghi che fanno riferimento a partiti politici di sinistra e mai quelli della destra.
La nostra distrazione non ci deve far dimenticare però che a breve saremo chiamati a votare per le elezioni amministrative provinciali.
Mi auspico che la campagna politica venga svolta con la massima serenità possibile.

dall'archivio de "LA PROVINCIA PAVESE"
Marcignago, sede del Pd distrutta
13 gennaio 2011

MARCIGNAGO. 
Piatti rotti, vetri sparsi dovunque e banconi distrutti. La devastazione è totale all’interno dell’area dove la sezione di Marcignago del Partito democratico ogni anno organizza la festa d’estate: nel pomeriggio di lunedì dei vandali si sono introdotti all’interno dell’edificio e hanno distrutto tutto quello che gli è capitato a tiro. Un disastro completo.
 I responsabili della sezione locale hanno già sporto denuncia contro ignoti, e sull’accaduto indagano i carabinieri di Bereguardo. La furia dei vandali non ha risparmiato niente: a terra ci sono bicchieri in frantumi, due frigoriferi danneggiati, i vetri delle finestre spaccate. Al centro di un tavolo di marmo si vede l’impronta della mazza che i teppisti hanno usato. Il danno è ingente: «Non abbiamo ancora fatto un calcolo preciso - spiega Tobia Del Vecchio, segretario della sezione locale del Pd -. Ma si parla di decine di migliaia di euro di danni». Gli ignoti teppisti sono entrati in azione tra le 17 e le 18 di lunedì: «Siamo assolutamente sicuri dell’ora - dice ancora Del Vecchio -, perché qui al pomeriggio vengono dei pensionati, e l’ultimo se n’è andato alle 17.15»». Verso le 18 un signore che abita nelle vicinanze esce per portare a spasso il cane, sente dei rumori sospetti provenire dall’edificio e avvisa il sindaco. Lorenzo Barbieri chiama subito i carabinieri e si precipita sul posto, ma i vandali sono già scappati. «Non abbiamo idea di chi possa essere stato, e quindi per ora non possiamo escludere nessuna ipotesi - dice ancora Del Vecchio mentre si fa largo tra le schegge di vetro -. In paese però non ci sono tensioni politiche: se la matrice di questo atto ignobile è politica, di sicuro viene da fuori». A Marcignago una cosa del genere non era mai successa. In paese c’è stupore e rammarico: «Sono scioccata, non so chi possa essere stato - dice una signora che abita accanto all’area devastata, in viale Europa -. Andavano fermati subito, adesso chi li prende?». Di sicuro un fatto simile non se l’aspettavano neanche quelli del Pd: «In passato avevamo avuto qualche furto, ma mai minacce o cose che ci facessero pensare di essere nel mirino - racconta il segretario locale -. Certo però se penso ai recenti fatti accaduti a Pavia, con tutti i danneggiamenti alle sedi della sinistra, mi viene un po’ di timore». A Marcignago non ci sono precedenti del genere: il paese, dopo 10 anni di governo di centrodestra, ha ora una giunta di centrosinistra. Nell’area che i vandali hanno devastato negli ultimi 50 anni si è sempre svolta la festa dell’Unità, e ora tra luglio e agosto si tiene la festa democratica. «La festa si farà anche quest’anno: non la daremo vinta ai teppisti - conclude Del Vecchio -. Rifaremo una sede più bella di prima».
-Gabriele Conta

martedì 11 gennaio 2011

Per un piatto di lenticchie

Il progetto del Centro Commerciale di Borgarello ha ricevuto forse l'ok decisivo dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Pavia. I comuni di  Pavia e San Genesio sono stati messi in minoranza. I comuni di Certosa di Pavia e di Giussago si accontentano di un piatto di lenticchie. Qualche strada "nuova" in più.
Ma quali strade? La tangenziale di Certosa di Pavia? La strada per Giussago? E come verranno realizzate?
Anche la Regione dice che ci sono delle pecche nel progetto: la compensazione ambientale non è sufficente e verrà prodotto eccessivo inquinamento.
E chi se ne frega. Tanto c'è chi è contento di quello che succederà. Probabilmente è rimasto abbagliato da promesse molto probabilmente fasulle. Ha vinto (spero per il momento) il culto del consumo ad ogni costo. Anche se sono un inguaribile ottimista, forse siamo al punto di non ritorno.
Non c'e peggior sordo di chi non vuole sentire e miope di chi non vuole vedere.
Sei mai stato al Carrefour di Assago? Ti piace forse vivere in un casello autostradale?
I gusti son gusti.
A proposito di Assago (che non viene considerato come concorrente al nuovo progetto), anche la Confcommercio di Pavia è molto critica. si dice che sarebbero 279 le unità totali dei nuovi posti di lavoro, mentre il nuovo centro commerciale farà perdere (indotto compreso) 573 posti di lavoro. Perdere quindi 294 posti di lavoro è il "guadagno" che ne verrà (forse). Ottimo affare.
Poi bisogna considerare anche il costo (non calcolato da nessuno) dello sfregio irreparabile per il territorio.
Qualcuno crede ancora che si sta cercando una rivalutazione turistica di qualità?
Per il momento tocca accettare, "obtorto collo", la decisione (salvo molto auspicabili colpi di scena).
Bisogna che ci si renda finalmente conto del danno che ne verrà e presidiare attentamente la situazione. Se sarà necessario, bisognerà essere assolutamente molto, ma molto esigenti sui parametri delle compensazioni ambientali e sulla qualità delle strade che si dovessero realizzare.
Purtroppo devo dire che sono molto amareggiato e deluso da tante cose.


Cascina Colombara di Certosa di Pavia
Comunicato Stampa di Legambiente Pavia
Sconcerto e incredulità sono le sensazioni con cui abbiamo appreso questa notizia.

Sin dall’inizio della vicenda, nel lontano 2000 (deliberazioni del Consiglio Comunale di Borgarello, n. 25/2000 e 65/2000) Legambiente ha sempre cercato di evidenziare quelli che riteneva errori, carenze, contraddizioni, inadempienze dei vari passaggi amministrativi, il non rispetto delle norme e contenuti non compatibili con la situazione del territorio.
Ora vediamo che un comune “commissariato” (per le note ragioni) va ad approvare l’ultimo centro commerciale con varie complicità:
  • la Regione che ha addirittura fatto un costoso Piano Territoriale Regionale d’Area Navigli Lombardi per uno “sviluppo qualitativo e sostenibile” del territorio attorno a queste importanti opere, con l’obiettivo della “preservazione delle aree libere presenti all’interno della fascia dei 100 m. dalle sponde dei Navigli e, per una larghezza di 500 mt. quando ci si trova in presenza di aree agricole, con indirizzi per la valorizzazione del territorio agricolo e ambientale”. Il centro commerciale ricade in questa fascia di 500 mt. (vedi tav. 3 sistema rurale-paesaggio) ed allora qual è il miglior modo per valorizzare il Naviglio Pavese ed il suo territorio agricolo-ambientale? Realizzare un centro commerciale su un’area da 240.000 mq. che si affaccia su Naviglio e Navigliaccio….
  • la Provincia di Pavia, che in cinque anni non è riuscita ad adeguare il proprio Piano Territoriale di Coordinamento (o non ha voluto farlo) le cui linee guida (2007) prevedevano “un giro di vite a centri commerciali e logistiche”…. Il suo Presidente in diverse occasioni ha accusato i sindaci di svendere il territorio e questa operazione che cos’è….?;
  • Certosa e Giussago da sempre contrari sembra abbiano cambiato idea per un pugno di euro;
  • altri prendono le distanze in un gioco delle parti che non incanta più nessuno…
Se si realizza una struttura così sull’ex ss. 35 dei Giovi (tra le più trafficate) non osiamo pensare a cosa succederà (ed in parte sta purtroppo già succedendo) lungo il percorso dell’autostrada Redavalle-Castello d’Agogna….
Ma non ci rassegniamo ed impegneremo tutte le nostre risorse per evitare che sia questo il modello di sviluppo perseguito in Provincia di Pavia.

Legambiente circolo Terre d’Acqua
Legambiente circolo di Pavia “il barcè”
Legambiente Provincia di Pavia - Gruppo Territorio

lunedì 10 gennaio 2011

sabato 1 gennaio 2011

Ritorno al futuro (scout)

Ho messo in moto la macchina del tempo...
Riprendo il cammino...
Due anni fa ho iniziato a scrivere su questo blog e il mio primo post si chiamava "rimpatriata del gruppo scout MI XIX".
Non pensavo di arrivare a questo.
Rispolverato il mio vecchio zaino, il sacco a pelo e recuperata l'attrezzatura necessaria, mi sto preparando per un campo di tre giorni con il Pavia 4.
La strada percorsa con i miei vecchi compagni non è una cosa poi così lontana.