Convegno organizzato dall’Associazione Saveria Antiochia Omicron
(Milano, Palazzo Marino, 9-10 novembre 2007)
Controllo del territorio e potenza economica
INTRODUZIONE del Prof. Carlo Smuraglia - Università Statale degli Studi di Milano.
1. Ho ritenuto necessaria, prima di passare alle relazioni vere e proprie, una “introduzione” con la finalità di accennare almeno sommariamente all’evoluzione storica della presenza della criminalità organizzata, e in particolare della mafia, a Milano, nonché delle reazioni, di volta in volta, delle istituzioni, della stampa, e della società in generale. Questo servirà, oltretutto, a spiegare perché e in che senso sia giusto parlare di mafia “invisibile”, perfino quando l’espressione può apparire clamorosamente paradossale.
Sulla invisibilità della mafia (come sulla sua imbattibilità) ci sono pregiudizi e luoghi comuni. Ci si attesta su queste formule e spesso non ci si rende conto di quanto siano astruse.
In alcuni momenti e in alcune zone, anche in quelle tradizionali, la mafia ha interesse a rendersi invisibile, quando decide che è meglio dedicarsi agli affari piuttosto che commettere omicidi. A maggior ragione questo può avvenire in zone non tradizionali, nelle quali è più opportuno lavorare in silenzio.
Ci sono altri casi, invece, in cui la mafia risulta ben visibile - che lo voglia o meno – e tuttavia questa visibilità non viene percepita da tutti; e ciò per ragioni sulle quali è opportuno e doveroso riflettere.
Basti pensare a ciò che è avvenuto negli anni a Milano e in altre località del nord. Per quanto questi fenomeni non abbiano mai riscosso l’attenzione che la stampa ha dedicato alle vicende di Tangentopoli, tuttavia i giornali sono stati costretti a parlare almeno dei processi più significativi e delle indagini più importanti, con particolare e specifico riferimento alle organizzazioni di tipo paramilitare, radicatesi in diverse provincie del nord, anche per effetto di alcuni clamorosi errori compiuti dagli organi centrali dello Stato, con l’assegnazione al confino di noti personaggi mafiosi, proprio in località assai vicine fra loro e densamente popolate. Di questo radicamento si sentono ancora gli effetti in località balzate più volte all’attenzione della cronaca, particolarmente nell’area a sud di Milano, in Comuni come Trezzano, Buccinasco, Corsico, Rozzano, Pieve Emanuele. E’ paradossale parlare di invisibilità a proposito di questi insediamenti e delle citate attività sul territorio, quando è certo che vi furono scontri di potere, guerre fra gruppi contrapposti, omicidi di sicuro stampo mafioso e quando di tutto questo dovettero occuparsi organi istituzionali come la Commissione Parlamentare Antimafia, i Comuni, la Provincia di Milano, oltre che – come è noto – i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, fortemente impegnati in questa dura battaglia e certamente non ignoti ai mezzi di comunicazione di massa.
Si è detto che nel tempo fra le varie organizzazioni di criminalità organizzata si è pervenuti ad una sorta di convivenza, quando non addirittura ad una spartizione di compiti. Ma a questo risultato, che oggettivamente era destinato a favorire l’invisibilità, si pervenne dopo scontri e tentativi di predominio e di prevaricazione sicuramente non indolori.
La presenza della mafia riconducibile a “Cosa Nostra”, della ‘Ndrangheta calabrese, della Sacra Corona Unita, in contemporanea, in varie zone del nord e in particolare nel milanese e in Lombardia, non poteva passare sotto silenzio, specialmente nel periodo, per così dire, più competitivo cui si è accennato.
Ma ci furono anche episodi, momenti e vicende che avrebbero dovuto essere più significativi per tutti coloro che avessero voluto davvero sconfiggere e superare i tradizionali pregiudizi.
Basta ricordare (e parlo di fatti anche remoti) le varie vicende dell’Ortomercato di Milano, sempre alla ribalta per questioni collegate alla criminalità comune ed a quella organizzata; a quelle dell’Autoparco, in cui risultarono coinvolti anche soggetti appartenenti alle istituzioni, al configurarsi di alcune zone periferiche di Milano come aree sottratte ad ogni controllo e dove spadroneggiavano bande ricollegabili a questa o quella forma di criminalità organizzata, ai traffici di stupefacenti, nei quali la lotta per il predominio appariva particolarmente accentuata, ai sequestri di persona, alle rapine, alle estorsioni, ai traffici di armi e così via; oppure alla trasformazione delle tradizionali tipologie dell’usura in forme organizzate e dotate di tutti gli strumenti abitualmente utilizzati dalle varie mafie.
Negli anni Settanta ci fu un sequestro di persona divenuto famoso perchè, purtroppo, fu pagato il riscatto e tuttavia morì la giovane sequestrata (Cristina Mazzotti), che rappresentò un segnale molto importante delle nuove organizzazioni e delle nuove presenze. Le indagini e il processo, svoltosi in parte a Novara per competenza territoriale e in parte a Lugano per esservi coinvolto un cittadino svizzero, rivelarono che l’organizzazione del sequestro proveniva dalla Calabria (ovviamente su segnalazione di qualche basista) in collegamento con delinquenti (spesso ex contrabbandieri) del nord in cerca di riqualificazione e di un salto di qualità; questo collegamento con la ‘Ndrangheta e la criminalità del nord avrebbe dovuto allarmare, perchè si trattava di uno dei più clamorosi passi di avvicinamento della criminalità organizzata calabrese verso la conquista delle zone più ricche del nord ed anche perchè la saldatura tra organizzazioni criminali mafiose e criminalità comune costituisce sempre un grave segnale di pericolo. E tuttavia, quel segnale fu colto solo in parte e solo da alcuni magistrati particolarmente esperti ed impegnati; così come, del resto, anche nel Veneto fu sottovalutata inizialmente la portata e la pericolosità della “Banda del Brenta” che ai metodi della mafia tradizionale univa strumenti e modalità che pretendevano di essere autonomi e innovativi.
Inutile fare altri esempi; basterebbe solo ricordare che i segnali della presenza mafiosa a Milano furono ancora più remoti di quanto si è detto. E’ notorio da molto tempo, che vi fu un famosissimo incontro di vertici della mafia, negli anni sessanta, a Cologno Monzese, dove si incontrarono personaggi come Gerlando Alberti, Calderone, Badalamenti, Buscetta, Salvatore Greco, Luciano Liggio, Joe Adonis, personaggi di grande fama e di grande reputazione mafiosa. Era impensabile che potessero riunirsi a Cologno e rimanere poi invisibili loro e la loro organizzazione; ed era altrettanto impensabile che potessero scegliere come luogo di incontro una località nella quale non godessero già di appoggi e strutture in qualche modo, anche se sommariamente, organizzate.
Insomma, è assolutamente certo che la mafia non è stata, per anni, così “invisibile”, come alcuni hanno mostrato di ritenere per lungo tempo.
Lo dimostra, del resto, la quarantina di processi solo a Milano e lo stesso fatto che per quanto riguarda beni di proprietà mafiosa confiscati e destinati ad usi sociali, la Lombardia è situata al quarto posto in Italia, mentre è al terzo per quanto riguarda le aziende confiscate, segno che per non pochi aspetti il fenomeno è dovuto venire allo scoperto, necessariamente, soprattutto quando operava sul territorio e su quel terreno veniva affrontato e in diversi casi sconfitto, se è vero che vi sono stati solo nella provincia di Milano oltre 2.000 arresti e vi sono state condanne molto rilevanti anche per personaggi di particolare notorietà e di soggetti a loro in qualche modo collegati.
Non a caso, d’altronde, la Commissione Parlamentare Antimafia percepì fin da epoca ormai assai remota l’entità del fenomeno, dedicando ad esso largo spazio nella relazione del 20 dicembre 1989, nella relazione di minoranza del 24 gennaio 1990, nelle relazioni del 4 luglio 1990 e 22 maggio 1991; fu ancora la Commissione Parlamentare Antimafia a svolgere sopralluoghi a Milano in quegli anni ed ottenere – d’ intesa con i Comuni interessati – sedute solenni proprio nell’hinterland sud di Milano, nei luoghi cioè dove veniva segnalata una larga presenza di organizzazioni mafiose e di personaggi di spicco.
Ma ancora: la Commissione Parlamentare Antimafia costituì nel corso della legislatura 1992- 1994 un gruppo di lavoro incaricato di occuparsi proprio delle attività e infiltrazioni delle organizzazioni criminali nelle zone non tradizionali; il lavoro di quel gruppo si concluse con un’ampia relazione che fu approvata all’unanimità dall’intera Commissione il 13 gennaio 1994 e successivamente fu pubblicata dall’editore Rubettino. In quella relazione, particolarmente ampia e frutto di una quantità notevolissima di incontri, di sopralluoghi in varie località e di audizioni anche estese, veniva presentato un quadro estremamente allarmante della situazione in tutto il nord Italia, con puntuali e precisi riferimenti all’enorme materiale acquisito soprattutto con il contributo della Magistratura e delle Forze dell’Ordine. Tant’è che nella relazione di minoranza presentata dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel 2006, si riconosce ancora “la perdurante validità delle linee fondamentali della relazione 13 gennaio 1994”, ovviamente con tutti gli opportuni e necessari aggiornamenti.
Da tutta la documentazione cui ho fatto riferimento (compreso quanto si ricava dagli atti dei principali procedimenti penali di cui si è già detto) risulta con assoluta evidenza che le “isole felici” di cui un tempo si amava parlare a proposito del nord, erano finite da tempo. E non solo per l’invasione delle varie organizzazioni criminali provenienti dal sud, ma anche per la crescente presenza di organizzazioni criminali di altri Paesi (dapprima turchi, cinesi, marocchini, sudamericani, ecc e successivamente anche albanesi, russi e slavi).
Insomma, se negli anni più lontani qualcuno poteva azzardare il riferimento, peraltro inesatto, a Milano come la “capitale del riciclaggio”, nel tempo diveniva evidente che c’era ben altro e soprattutto c’era un grande miscuglio di reati anche gravissimi commessi dalle organizzazioni criminali di vario tipo, ma per lo più di stampo mafioso.
Ma questa, alla lunga, era la mafia “più visibile” e quindi in un certo modo più facile da combattere anche con gli strumenti e i metodi tradizionali.
Di mafia “invisibile” è più giusto parlare a proposito di altri tipi di comportamenti, che hanno più a che fare con il denaro che con le persone, più con gli uffici, le banche, le consulenze sofisticate, i grandi commerci e trasferimenti di denaro a livello internazionale che non con gli scontri di potere e le azioni intimidatorie sul territorio.
Sotto questo profilo, i problemi per le organizzazioni mafiose che operano nel nord sono di altro tipo e di vario genere: si tratta di acquisire il controllo di attività economiche, legate al mondo economico e finanziario, impiegare e trasformare l’enorme quantità di denaro ricavato da traffici imponenti di stupefacenti e di armi, dalle operazioni organizzate di estorsioni e di usura, da tante altre attività illecite.
Questa mafia, che compie la scelta strategica di trasformarsi in mafia “finanziaria” (pur non abbandonando le attività tradizionali), ricorre a tutti gli strumenti e a tutte le tipologie, dall’acquisto di aziende in stato di decozione alla intrusione nel mondo degli appalti, all’acquisto e trasferimento di immobili, al riciclaggio e così via, creando una vera e propria distorsione del sistema economico.
Secondo alcuni dati, le organizzazioni mafiose, che dispongono di proventi enormi ed hanno bisogno di reimpiegarli, investono solo l’11% in attività commerciali, il 17% nel comparto immobiliare e salgono addirittura al 60% per le operazioni finanziarie. Tutto questo si può fare dovunque, ormai con gli strumenti e i mezzi più innovativi e le nuove tecnologie, ma trova pur sempre la sede di elezione in aree non tradizionalmente mafiose, ove il denaro scorre in grande quantità e gli affari e i trasferimenti anche con l’estero sono di enorme portata.
Questo tipo di attività ha bisogno, ovviamente, di svolgersi in silenzio, sotto l’usbergo di una vasta area di perbenismo borghese e la copertura dell’apparente liceità delle operazioni, tanto più facile quanto più la società in cui si opera è degradata e tiene in scarsa considerazione i valori reali dell’economia e dell’etica.
Ed è proprio a fronte di questi fenomeni che è giusto parlare di “invisibilità”, come connotato e requisito costante di queste forme di attività criminali. Non dimenticando, peraltro, che esse non comportano affatto l’abbandono delle attività più tradizionali e in certo modo propedeutiche; in sostanza, tutti i fenomeni già indicati e più facilmente inquadrabili nel nostro sistema criminale, permangono e si espandono; mentre si estendono anche le presenze delle organizzazioni criminali straniere; con qualche immissione più recente, come si è accennato (l’immigrazione criminale dall’Europa dell’Est) e con qualche innovazione anche per ciò che attiene alla tipologia delle azioni criminose, per le quali si deve segnalare l’incremento costante di fenomeni un tempo meno diffusi, come la tratta delle donne, la riduzione in schiavitù, l’abuso e lo sfruttamento delle donne e dei minori e così via.
2. Tutto ciò che si è fin qui detto è stato oggetto di costante e diffusa sottovalutazione. In alcuni casi ci sono state addirittura obiettive difficoltà per comprendere i fenomeni e mettere in campo efficaci azioni di contrasto. In altri, bisogna dire che si è fatto di tutto per non vedere e non capire, anche quando ci si trovava di fronte a clamorose evidenze.
Non si può dire, infatti, che siano mancati gli avvertimenti e i segnali, fra i quali vanno evidenziate – prima di ogni altra cosa – le attività svolte dall’Autorità Giudiziaria e dalla Commissione Parlamentare Antimafia, a cui si è già fatto riferimento.
Già le iniziative di quest’ultima avrebbero dovuto determinare un mutamento radicale almeno delle opinioni. Ma anche i processi condotti a termine in varie sedi, con numerosissimi arresti, avrebbero dovuto contribuire alla caduta di alcuni pregiudizi e di alcune ignoranze. Anche se, come è ovvio, i processi si riferivano per lo più ad operazioni condotte sul territorio, nei confronti delle attività mafiose più visibili.
Ma ci fu anche una molteplicità di iniziative, anche a livello culturale e informativo, alle quali non corrispose nè un interesse reale, nè un seguito adeguato.
Mi riferisco alle Giornate di studio sulla criminalità organizzata in Lombardia promosse dal Consiglio Regionale della Lombardia nel 1979 e nel 1981-82, al convegno “Stato, mafia e poteri criminali” dell’ottobre 1983 con la partecipazione di studiosi, magistrati, giuristi, italiani e stranieri e giornalisti (poi pubblicato su “Democrazia e Diritto” del 1985), al convegno “Gli enti locali e la lotta alla mafia” ancora organizzato dal Consiglio Regionale di Milano; al convegno “Esperienze e confronti fra nord e sud” organizzato dalla Provincia di Milano nel 1998 ed altri.
Mi riferisco anche ai volumi pubblicati dall’editore Giuffrè, con gli atti dei convegni organizzati dal Consiglio Regionale, alla pubblicazione, editore Rubettino, della relazione nel 1994 del citato gruppo di lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia; ai due fascicoli dedicati nel 1988 e nel 1992 dalla rivista Micromega ai problemi delle mafie del nord; ai libri di Colombo sul riciclaggio, di Turone, di Ciconte (sulle estorsioni ed usura in Lombardia), di Zamagni, sul mercato illegale e la mafia, all’importante volume “La mafia a Milano” a cura di Portanova, Rossi e Stefanoni, pubblicato nel 1996 dagli Editori Riuniti, e tanti altri.
A Milano, nel novembre 1990, fu istituito dal Comune un “Comitato di iniziativa e vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi e sui fenomeni di infiltrazione di stampo mafioso”, che poi presentò due relazioni parziali (una sulla situazione delle periferie milanesi, nel maggio 1991 ed una sulle procedure amministrative, nel luglio 1991) ed una conclusiva, nel luglio 2002. In quelle relazioni si forniva un quadro molto ampio della presenza delle organizzazioni criminali a Milano e degli effetti negativi che ciò poteva produrre, da un lato sulla vita delle istituzioni e dall’altro sulla stessa economia. Si formulavano indicazioni e proposte precise e si forniva un elenco ragionato degli indici più significativi della presenza e delle attività mafiose, da tenere sotto continuo controllo ed osservazione.
Infine, la citata relazione della Commissione Parlamentare Antimafia approvata il 13 gennaio 1994 conteneva non solo dati di conoscenza, ma anche precise indicazioni per il controllo dei fenomeni (non solo sul territorio) e l’indirizzo di ogni tipo di attività di contrasto.
Vi è stato, dunque, e vi è tuttora, un materiale vastissimo su cui riflettere e lavorare, non solo per contrastare la mafia visibile, ma anche per contrastare la cosiddetta mafia invisibile.
Né vanno dimenticate le numerose iniziative adottate dalla Commissione Parlamentare Antimafia, d’ intesa con il Ministro dell’Istruzione, fin dal 1993, per la diffusione di materiale di conoscenza sulla mafia nelle scuole, nonché l’attività svolta dall’associazione “Libera” dopo la sua costituzione nel 1995, per sensibilizzare, appunto, le scuole con iniziative, dibattiti e distribuzione di importanti materiali.
3. A tutto questo non ha corrisposto un’adeguata sensibilità complessiva nè una corretta percezione dell’entità del fenomeno. Ed anche questo, senza dubbio, ha contribuito alla invisibilità della mafia e all’indebolimento dell’azione di contrasto.
Ciò è dovuto a fattori molto complessi e variegati, che vanno dalla semplice indifferenza e sottovalutazione, fino al pregiudizio secondo il quale parlare troppo di presenze criminali in certe aree del Paese finirebbe per incrinare il buon nome di una città, di una regione o di un’istituzione.
E’ così che, mentre per altre relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia vi furono notevoli interessamenti editoriali, per quella relativa alle infiltrazioni nel nord la ricerca fu più complessa e paradossalmente si concluse con la pubblicazione da parte di un editore del sud.
Quando furono presentate le relazioni del comitato nominato dal Comune di Milano, le reazioni furono “indignate”; si ritenne, da parte di alcuni amministratori, che il quadro fornito fosse tale da incrinare il buon nome della “capitale morale” d’Italia e, peggio, della cosiddetta “Milano da bere”; un amministratore parlò addirittura di una “coltellata nella schiena”; un sindaco liquidò il lavoro del comitato asserendo che erano tutte fantasie ed ingenuità (“la mafia, a Milano non c’è proprio; mi sono persuaso, parlando con il questore, che Milano non è affatto una città mafiosa”). Si ammetteva, insomma (significativa un’intervista pubblicata sul “Giornale” del 5 agosto 1992), che a Milano potevano esserci alcuni personaggi mafiosi, ma non il fenomeno come tale e che insomma “un pericolo mafioso specifico” non era stato dimostrato da nessuno.
Opinioni personali? Forse; di fatto, la relazione conclusiva del comitato non fu mai pubblicata e l’iniziativa non ebbe alcun ulteriore seguito, così come inascoltate rimasero le indicazioni e le proposte formulate.
Quando il gruppo di lavoro della Commissione parlamentale venne a Milano e il presidente Violante tenne una conferenza stampa a conclusione degli incontri tenuti in Prefettura, su un quotidiano milanese del 25 ottobre 1993 si poteva leggere: “La mafia a Milano? Solo fantasie. Non è stata una buona pubblicità per Milano la relazione dell’Antimafia dopo le audizioni. Troppo drammatica la relazione; si sono trovati discordi anche alcuni delle forze dell’ordine”.
Quando tornò, con altro presidente, la Commissione Parlamentare Antimafia, a Milano, il 10 gennaio 1997, all’incontro non si presentarono né il sindaco né il Presidente della Regione, impegnati altrove, e mandarono soltanto dei sostituti.
E non si è trattato di episodi occasionali se è vero che nella relazione del 2001 della Commissione Parlamentare Antimafia, preseduta dall’On. Lumia, si poteva leggere che “la percezione nelle zone non tradizionalmente mafiose della presenza della criminalità organizzata continua a rimanere molto bassa, al punto che da amministratori locali ne viene contestata la stessa esistenza”; e la relazione aggiungeva che “nelle visite effettuate nelle regioni del nord si è avuta la conferma che all’allarme lanciato dai magistrati inquirenti e dai responsabili delle Forze dell’Ordine corrispondeva una generale sottovalutazione da parte degli amministratori locali e di responsabili di istituzioni economico-finanziarie”.
Qui si apre una grande finestra su una situazione davvero paradossale.
Il fenomeno è percepito da Magistratura e Forze dell’Ordine, che però sono costrette – per tante ragioni, non esclusa la mancanza di strutture e mezzi adeguati – ad intervenire soprattutto sul territorio, restando quasi impotenti di fronte alle pur certe attività illecite, sul piano economico-finanziario, che costituiscono la massima espressione della mafia invisibile; mentre nel campo più delicato e difficile manca una reale collaborazione da parte degli organismi preposti, quando addirittura non vi siano forme di resistenza passiva.
Per altro verso, la stessa società civile, pronta a plaudire alle operazioni in grande stile contro le organizzazioni mafiose, resta assente da tutto quel lavoro anche di conoscenza ed informazione, ma soprattutto di partecipazione, che dovrebbe aiutare a combattere i fenomeni più rilevanti e meno appariscenti.
Ben pochi sembrano ancora disposti a cogliere i segnali che ripetutamente sono stati indicati sia dal comitato del Comune di Milano nel 1991-92, sia dalla Commissione Parlamentare Antimafia a partire dalla relazione del gennaio 1994. Eppure, le operazioni bancarie sospette, i frequenti turn-over delle licenze commerciali, l’acquisizione di società in stato di decozione, gli improvvisi arricchimenti, il diffondersi di società finanziarie sospette anche per la formazione di un sistema concatenato di scatole cinesi, la diffusione - a livello sistematico – dell’usura, le infinite e variegate forme di riciclaggio e così via, se non sono proprio sotto gli occhi di tutti, rappresentano tuttavia indici rivelatori di un sistema illecito e distorsivo della stessa economia, sicuramente percepibile almeno ad alcuni livelli istituzionali, finanziari ed economici.
Significativa la recente polemica che l’ABI ha condotto contro alcune dichiarazioni del Presidente della Commissione Antimafia, che aveva denunciato la scarsità di segnalazioni di operazioni sospette da parte delle banche. A prescindere dalle ragioni e dai torti, sui quali non disponiamo di dati sufficienti per emettere giudizi, colpisce in sè il fatto di una polemica fra organismi che dovrebbero collaborare per combattere un nemico estremamente difficile ed agguerrito.
Un grande maestro milanese del diritto sosteneva paradossalmente che è una lotta quasi impari quella fra lo Stato e la criminalità organizzata, perchè quest’ultima è più duttile, più sensibile di fronte agli strumenti nuovi, in un certo senso più “intelligente”, rispetto al legislatore che arriva spesso in ritardo, che è stretto da vincoli burocratici, che non sempre è capace di predisporre tutti i mezzi e gli strumenti necessari per combattere fino in fondo la sua battaglia. C’è del vero, nel paradosso, perchè in realtà la mafia, che non è più (bisogna ricordarlo sempre) quella immortalata nei film, con la coppola e la lupara, è prontissima a percepire il nuovo, le possibilità offerte dalla libera circolazione, dall’abbattimento di molte barriere, dalla globalizzazione e dai nuovi strumenti informatici, mentre lo Stato stenta a mettere in campo quelle “intelligence” che sono necessarie per indagare sui patrimoni, sui movimenti di denaro, sugli appalti, sulle operazioni economiche illecite e così via; e soprattutto, trova poca collaborazione nella stessa società e poca sensibilità da parte dei cittadini. E questo non è attribuibile solo all’indifferenza ed alla sottovalutazione, ma riconduce a responsabilità più elevate, di chi non riesce a creare una vera cultura non solo dell’antimafia, ma, prima ancora, della legalità ed a mettere in campo una strategia complessiva e largamente condivisa.
Una strategia che dovrebbe comprendere sia l’impegno sul territorio contro i reati più gravi, da quelli più antichi a quelli più recenti, sia l’impegno intelligente e informato contro le attività meno appariscenti, più “invisibili”, ma non meno gravi, preoccupanti e pericolose.
Sosteneva Falcone che gli uomini possono cercare di scomparire, magari con lunghe latitanze, ma il denaro finisce necessariamente per lasciare qualche traccia, solo che la si sappia cogliere. Personalmente, ritengo che anche le latitanze di personaggi potenti della mafia si giustifichino poco (ma il discorso, sul punto, sarebbe troppo lungo); ma sono certo che nonostante le innovazioni tecnologiche e le nuove libertà di circolazione delle persone e del denaro, è tutt’altro che impossibile affondare le mani anche nel sottofondo, purché si sappiano cogliere i sintomi esterni del male, si sappiano leggere i bilanci e le operazioni finanziarie, si sappia, cioè, operare con gli stessi strumenti che le organizzazioni criminali utilizzano, ormai in modo assai disinvolto, soprattutto nelle regioni del nord Italia.
Ma per questo occorre anche sconfiggere indifferenze e sottovalutazioni, allontanare i pregiudizi, formare – fin dalle scuole – una cultura della legalità e dell’etica anche nell’economia; occorre cioè impegnare tutti gli organi dello Stato e tutte le istituzioni economiche, finanziarie e sociali non meno che tutti i cittadini. Su questo piano, grande potrebbe essere anche il contributo degli organi di informazione che – lasciando perdere gli aspetti più appariscenti e impressionistici di alcune vicende – sappiano documentare, informare, sensibilizzare, appoggiando gli sforzi degli organi dello Stato, ma anche contribuendo a creare quella cultura di cui più volte ho parlato. Basti un esempio: dagli “stati generali dell’antimafia” tenutisi lo scorso anno, è uscita una serie di proposte molto serie, tutte, comunque, degne di riflessione. In realtà, di quelle indicazioni e proposte ben poco è giunto al cittadino, mentre nessun dibattito si è aperto pubblicamente sulle tematiche prospettate. E’un segnale negativo, perchè non è così che si può realizzare quel cambio di marcia nell’ impegno contro le mafie, anche e soprattutto contro la mafia “invisibile”, che pur da tante parti viene auspicato e sollecitato.
Se è vero che, anziché farsi la guerra, i gruppi criminali hanno realizzato tacite intese, dando vita a nuove forme di criminalità integrata o ripartendosi i compiti, se è vero che sul territorio operano gruppi stranieri di vario tipo ma che si ispirano anche a modelli comportamentali non tradizionali, ed infine se è vero che la mafia, per alcuni versi soprattutto al nord, si è trasformata in una mafia dedita agli affari ed alle operazioni finanziarie, è evidente che occorre oggi, più che mai, un vero salto di qualità, da realizzare:
- nell’azione politica complessiva, che deve ispirarsi alla massima chiarezza ed efficacia, ma senza incoerenze, nel contrasto alla mafia;
- nella Commissione Parlamentare Antimafia, potenziata e sempre più resa indipendente dalle collocazioni politiche, e più credibile nella composizione;
- nel rafforzamento degli strumenti d’indagine sul territorio e delle strutture delle Direzioni Distrettuali Antimafia;
- nel potenziamento dell’azione di contrasto e di intelligence sul piano economico e finanziario;
- nel potenziamento della collaborazione da parte degli operatori economici e delle banche;
- nella forte sensibilizzazione degli organismi istituzionali, degli Enti Locali e della stessa opinione pubblica, rendendo evidente a tutti che se la rapina sotto casa fa paura, tutto ciò che avviene nel mondo dell’economia illecita, sommersa, criminale, è assai più pericoloso perchè mette a rischio lo stesso sistema economico del Paese, la sicurezza dei cittadini, i poteri dello Stato:
- nell’abbandono degli atteggiamenti altalenanti, delle “convivenze” possibili, dell’accettazione quasi rassegnata dell’ineluttabilità dei fenomeni, rafforzando invece le conoscenze e la cultura della legalità.
www.omicronweb.it
(Milano, Palazzo Marino, 9-10 novembre 2007)
Controllo del territorio e potenza economica
INTRODUZIONE del Prof. Carlo Smuraglia - Università Statale degli Studi di Milano.
1. Ho ritenuto necessaria, prima di passare alle relazioni vere e proprie, una “introduzione” con la finalità di accennare almeno sommariamente all’evoluzione storica della presenza della criminalità organizzata, e in particolare della mafia, a Milano, nonché delle reazioni, di volta in volta, delle istituzioni, della stampa, e della società in generale. Questo servirà, oltretutto, a spiegare perché e in che senso sia giusto parlare di mafia “invisibile”, perfino quando l’espressione può apparire clamorosamente paradossale.
Sulla invisibilità della mafia (come sulla sua imbattibilità) ci sono pregiudizi e luoghi comuni. Ci si attesta su queste formule e spesso non ci si rende conto di quanto siano astruse.
In alcuni momenti e in alcune zone, anche in quelle tradizionali, la mafia ha interesse a rendersi invisibile, quando decide che è meglio dedicarsi agli affari piuttosto che commettere omicidi. A maggior ragione questo può avvenire in zone non tradizionali, nelle quali è più opportuno lavorare in silenzio.
Ci sono altri casi, invece, in cui la mafia risulta ben visibile - che lo voglia o meno – e tuttavia questa visibilità non viene percepita da tutti; e ciò per ragioni sulle quali è opportuno e doveroso riflettere.
Basti pensare a ciò che è avvenuto negli anni a Milano e in altre località del nord. Per quanto questi fenomeni non abbiano mai riscosso l’attenzione che la stampa ha dedicato alle vicende di Tangentopoli, tuttavia i giornali sono stati costretti a parlare almeno dei processi più significativi e delle indagini più importanti, con particolare e specifico riferimento alle organizzazioni di tipo paramilitare, radicatesi in diverse provincie del nord, anche per effetto di alcuni clamorosi errori compiuti dagli organi centrali dello Stato, con l’assegnazione al confino di noti personaggi mafiosi, proprio in località assai vicine fra loro e densamente popolate. Di questo radicamento si sentono ancora gli effetti in località balzate più volte all’attenzione della cronaca, particolarmente nell’area a sud di Milano, in Comuni come Trezzano, Buccinasco, Corsico, Rozzano, Pieve Emanuele. E’ paradossale parlare di invisibilità a proposito di questi insediamenti e delle citate attività sul territorio, quando è certo che vi furono scontri di potere, guerre fra gruppi contrapposti, omicidi di sicuro stampo mafioso e quando di tutto questo dovettero occuparsi organi istituzionali come la Commissione Parlamentare Antimafia, i Comuni, la Provincia di Milano, oltre che – come è noto – i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, fortemente impegnati in questa dura battaglia e certamente non ignoti ai mezzi di comunicazione di massa.
Si è detto che nel tempo fra le varie organizzazioni di criminalità organizzata si è pervenuti ad una sorta di convivenza, quando non addirittura ad una spartizione di compiti. Ma a questo risultato, che oggettivamente era destinato a favorire l’invisibilità, si pervenne dopo scontri e tentativi di predominio e di prevaricazione sicuramente non indolori.
La presenza della mafia riconducibile a “Cosa Nostra”, della ‘Ndrangheta calabrese, della Sacra Corona Unita, in contemporanea, in varie zone del nord e in particolare nel milanese e in Lombardia, non poteva passare sotto silenzio, specialmente nel periodo, per così dire, più competitivo cui si è accennato.
Ma ci furono anche episodi, momenti e vicende che avrebbero dovuto essere più significativi per tutti coloro che avessero voluto davvero sconfiggere e superare i tradizionali pregiudizi.
Basta ricordare (e parlo di fatti anche remoti) le varie vicende dell’Ortomercato di Milano, sempre alla ribalta per questioni collegate alla criminalità comune ed a quella organizzata; a quelle dell’Autoparco, in cui risultarono coinvolti anche soggetti appartenenti alle istituzioni, al configurarsi di alcune zone periferiche di Milano come aree sottratte ad ogni controllo e dove spadroneggiavano bande ricollegabili a questa o quella forma di criminalità organizzata, ai traffici di stupefacenti, nei quali la lotta per il predominio appariva particolarmente accentuata, ai sequestri di persona, alle rapine, alle estorsioni, ai traffici di armi e così via; oppure alla trasformazione delle tradizionali tipologie dell’usura in forme organizzate e dotate di tutti gli strumenti abitualmente utilizzati dalle varie mafie.
Negli anni Settanta ci fu un sequestro di persona divenuto famoso perchè, purtroppo, fu pagato il riscatto e tuttavia morì la giovane sequestrata (Cristina Mazzotti), che rappresentò un segnale molto importante delle nuove organizzazioni e delle nuove presenze. Le indagini e il processo, svoltosi in parte a Novara per competenza territoriale e in parte a Lugano per esservi coinvolto un cittadino svizzero, rivelarono che l’organizzazione del sequestro proveniva dalla Calabria (ovviamente su segnalazione di qualche basista) in collegamento con delinquenti (spesso ex contrabbandieri) del nord in cerca di riqualificazione e di un salto di qualità; questo collegamento con la ‘Ndrangheta e la criminalità del nord avrebbe dovuto allarmare, perchè si trattava di uno dei più clamorosi passi di avvicinamento della criminalità organizzata calabrese verso la conquista delle zone più ricche del nord ed anche perchè la saldatura tra organizzazioni criminali mafiose e criminalità comune costituisce sempre un grave segnale di pericolo. E tuttavia, quel segnale fu colto solo in parte e solo da alcuni magistrati particolarmente esperti ed impegnati; così come, del resto, anche nel Veneto fu sottovalutata inizialmente la portata e la pericolosità della “Banda del Brenta” che ai metodi della mafia tradizionale univa strumenti e modalità che pretendevano di essere autonomi e innovativi.
Inutile fare altri esempi; basterebbe solo ricordare che i segnali della presenza mafiosa a Milano furono ancora più remoti di quanto si è detto. E’ notorio da molto tempo, che vi fu un famosissimo incontro di vertici della mafia, negli anni sessanta, a Cologno Monzese, dove si incontrarono personaggi come Gerlando Alberti, Calderone, Badalamenti, Buscetta, Salvatore Greco, Luciano Liggio, Joe Adonis, personaggi di grande fama e di grande reputazione mafiosa. Era impensabile che potessero riunirsi a Cologno e rimanere poi invisibili loro e la loro organizzazione; ed era altrettanto impensabile che potessero scegliere come luogo di incontro una località nella quale non godessero già di appoggi e strutture in qualche modo, anche se sommariamente, organizzate.
Insomma, è assolutamente certo che la mafia non è stata, per anni, così “invisibile”, come alcuni hanno mostrato di ritenere per lungo tempo.
Lo dimostra, del resto, la quarantina di processi solo a Milano e lo stesso fatto che per quanto riguarda beni di proprietà mafiosa confiscati e destinati ad usi sociali, la Lombardia è situata al quarto posto in Italia, mentre è al terzo per quanto riguarda le aziende confiscate, segno che per non pochi aspetti il fenomeno è dovuto venire allo scoperto, necessariamente, soprattutto quando operava sul territorio e su quel terreno veniva affrontato e in diversi casi sconfitto, se è vero che vi sono stati solo nella provincia di Milano oltre 2.000 arresti e vi sono state condanne molto rilevanti anche per personaggi di particolare notorietà e di soggetti a loro in qualche modo collegati.
Non a caso, d’altronde, la Commissione Parlamentare Antimafia percepì fin da epoca ormai assai remota l’entità del fenomeno, dedicando ad esso largo spazio nella relazione del 20 dicembre 1989, nella relazione di minoranza del 24 gennaio 1990, nelle relazioni del 4 luglio 1990 e 22 maggio 1991; fu ancora la Commissione Parlamentare Antimafia a svolgere sopralluoghi a Milano in quegli anni ed ottenere – d’ intesa con i Comuni interessati – sedute solenni proprio nell’hinterland sud di Milano, nei luoghi cioè dove veniva segnalata una larga presenza di organizzazioni mafiose e di personaggi di spicco.
Ma ancora: la Commissione Parlamentare Antimafia costituì nel corso della legislatura 1992- 1994 un gruppo di lavoro incaricato di occuparsi proprio delle attività e infiltrazioni delle organizzazioni criminali nelle zone non tradizionali; il lavoro di quel gruppo si concluse con un’ampia relazione che fu approvata all’unanimità dall’intera Commissione il 13 gennaio 1994 e successivamente fu pubblicata dall’editore Rubettino. In quella relazione, particolarmente ampia e frutto di una quantità notevolissima di incontri, di sopralluoghi in varie località e di audizioni anche estese, veniva presentato un quadro estremamente allarmante della situazione in tutto il nord Italia, con puntuali e precisi riferimenti all’enorme materiale acquisito soprattutto con il contributo della Magistratura e delle Forze dell’Ordine. Tant’è che nella relazione di minoranza presentata dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel 2006, si riconosce ancora “la perdurante validità delle linee fondamentali della relazione 13 gennaio 1994”, ovviamente con tutti gli opportuni e necessari aggiornamenti.
Da tutta la documentazione cui ho fatto riferimento (compreso quanto si ricava dagli atti dei principali procedimenti penali di cui si è già detto) risulta con assoluta evidenza che le “isole felici” di cui un tempo si amava parlare a proposito del nord, erano finite da tempo. E non solo per l’invasione delle varie organizzazioni criminali provenienti dal sud, ma anche per la crescente presenza di organizzazioni criminali di altri Paesi (dapprima turchi, cinesi, marocchini, sudamericani, ecc e successivamente anche albanesi, russi e slavi).
Insomma, se negli anni più lontani qualcuno poteva azzardare il riferimento, peraltro inesatto, a Milano come la “capitale del riciclaggio”, nel tempo diveniva evidente che c’era ben altro e soprattutto c’era un grande miscuglio di reati anche gravissimi commessi dalle organizzazioni criminali di vario tipo, ma per lo più di stampo mafioso.
Ma questa, alla lunga, era la mafia “più visibile” e quindi in un certo modo più facile da combattere anche con gli strumenti e i metodi tradizionali.
Di mafia “invisibile” è più giusto parlare a proposito di altri tipi di comportamenti, che hanno più a che fare con il denaro che con le persone, più con gli uffici, le banche, le consulenze sofisticate, i grandi commerci e trasferimenti di denaro a livello internazionale che non con gli scontri di potere e le azioni intimidatorie sul territorio.
Sotto questo profilo, i problemi per le organizzazioni mafiose che operano nel nord sono di altro tipo e di vario genere: si tratta di acquisire il controllo di attività economiche, legate al mondo economico e finanziario, impiegare e trasformare l’enorme quantità di denaro ricavato da traffici imponenti di stupefacenti e di armi, dalle operazioni organizzate di estorsioni e di usura, da tante altre attività illecite.
Questa mafia, che compie la scelta strategica di trasformarsi in mafia “finanziaria” (pur non abbandonando le attività tradizionali), ricorre a tutti gli strumenti e a tutte le tipologie, dall’acquisto di aziende in stato di decozione alla intrusione nel mondo degli appalti, all’acquisto e trasferimento di immobili, al riciclaggio e così via, creando una vera e propria distorsione del sistema economico.
Secondo alcuni dati, le organizzazioni mafiose, che dispongono di proventi enormi ed hanno bisogno di reimpiegarli, investono solo l’11% in attività commerciali, il 17% nel comparto immobiliare e salgono addirittura al 60% per le operazioni finanziarie. Tutto questo si può fare dovunque, ormai con gli strumenti e i mezzi più innovativi e le nuove tecnologie, ma trova pur sempre la sede di elezione in aree non tradizionalmente mafiose, ove il denaro scorre in grande quantità e gli affari e i trasferimenti anche con l’estero sono di enorme portata.
Questo tipo di attività ha bisogno, ovviamente, di svolgersi in silenzio, sotto l’usbergo di una vasta area di perbenismo borghese e la copertura dell’apparente liceità delle operazioni, tanto più facile quanto più la società in cui si opera è degradata e tiene in scarsa considerazione i valori reali dell’economia e dell’etica.
Ed è proprio a fronte di questi fenomeni che è giusto parlare di “invisibilità”, come connotato e requisito costante di queste forme di attività criminali. Non dimenticando, peraltro, che esse non comportano affatto l’abbandono delle attività più tradizionali e in certo modo propedeutiche; in sostanza, tutti i fenomeni già indicati e più facilmente inquadrabili nel nostro sistema criminale, permangono e si espandono; mentre si estendono anche le presenze delle organizzazioni criminali straniere; con qualche immissione più recente, come si è accennato (l’immigrazione criminale dall’Europa dell’Est) e con qualche innovazione anche per ciò che attiene alla tipologia delle azioni criminose, per le quali si deve segnalare l’incremento costante di fenomeni un tempo meno diffusi, come la tratta delle donne, la riduzione in schiavitù, l’abuso e lo sfruttamento delle donne e dei minori e così via.
2. Tutto ciò che si è fin qui detto è stato oggetto di costante e diffusa sottovalutazione. In alcuni casi ci sono state addirittura obiettive difficoltà per comprendere i fenomeni e mettere in campo efficaci azioni di contrasto. In altri, bisogna dire che si è fatto di tutto per non vedere e non capire, anche quando ci si trovava di fronte a clamorose evidenze.
Non si può dire, infatti, che siano mancati gli avvertimenti e i segnali, fra i quali vanno evidenziate – prima di ogni altra cosa – le attività svolte dall’Autorità Giudiziaria e dalla Commissione Parlamentare Antimafia, a cui si è già fatto riferimento.
Già le iniziative di quest’ultima avrebbero dovuto determinare un mutamento radicale almeno delle opinioni. Ma anche i processi condotti a termine in varie sedi, con numerosissimi arresti, avrebbero dovuto contribuire alla caduta di alcuni pregiudizi e di alcune ignoranze. Anche se, come è ovvio, i processi si riferivano per lo più ad operazioni condotte sul territorio, nei confronti delle attività mafiose più visibili.
Ma ci fu anche una molteplicità di iniziative, anche a livello culturale e informativo, alle quali non corrispose nè un interesse reale, nè un seguito adeguato.
Mi riferisco alle Giornate di studio sulla criminalità organizzata in Lombardia promosse dal Consiglio Regionale della Lombardia nel 1979 e nel 1981-82, al convegno “Stato, mafia e poteri criminali” dell’ottobre 1983 con la partecipazione di studiosi, magistrati, giuristi, italiani e stranieri e giornalisti (poi pubblicato su “Democrazia e Diritto” del 1985), al convegno “Gli enti locali e la lotta alla mafia” ancora organizzato dal Consiglio Regionale di Milano; al convegno “Esperienze e confronti fra nord e sud” organizzato dalla Provincia di Milano nel 1998 ed altri.
Mi riferisco anche ai volumi pubblicati dall’editore Giuffrè, con gli atti dei convegni organizzati dal Consiglio Regionale, alla pubblicazione, editore Rubettino, della relazione nel 1994 del citato gruppo di lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia; ai due fascicoli dedicati nel 1988 e nel 1992 dalla rivista Micromega ai problemi delle mafie del nord; ai libri di Colombo sul riciclaggio, di Turone, di Ciconte (sulle estorsioni ed usura in Lombardia), di Zamagni, sul mercato illegale e la mafia, all’importante volume “La mafia a Milano” a cura di Portanova, Rossi e Stefanoni, pubblicato nel 1996 dagli Editori Riuniti, e tanti altri.
A Milano, nel novembre 1990, fu istituito dal Comune un “Comitato di iniziativa e vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi e sui fenomeni di infiltrazione di stampo mafioso”, che poi presentò due relazioni parziali (una sulla situazione delle periferie milanesi, nel maggio 1991 ed una sulle procedure amministrative, nel luglio 1991) ed una conclusiva, nel luglio 2002. In quelle relazioni si forniva un quadro molto ampio della presenza delle organizzazioni criminali a Milano e degli effetti negativi che ciò poteva produrre, da un lato sulla vita delle istituzioni e dall’altro sulla stessa economia. Si formulavano indicazioni e proposte precise e si forniva un elenco ragionato degli indici più significativi della presenza e delle attività mafiose, da tenere sotto continuo controllo ed osservazione.
Infine, la citata relazione della Commissione Parlamentare Antimafia approvata il 13 gennaio 1994 conteneva non solo dati di conoscenza, ma anche precise indicazioni per il controllo dei fenomeni (non solo sul territorio) e l’indirizzo di ogni tipo di attività di contrasto.
Vi è stato, dunque, e vi è tuttora, un materiale vastissimo su cui riflettere e lavorare, non solo per contrastare la mafia visibile, ma anche per contrastare la cosiddetta mafia invisibile.
Né vanno dimenticate le numerose iniziative adottate dalla Commissione Parlamentare Antimafia, d’ intesa con il Ministro dell’Istruzione, fin dal 1993, per la diffusione di materiale di conoscenza sulla mafia nelle scuole, nonché l’attività svolta dall’associazione “Libera” dopo la sua costituzione nel 1995, per sensibilizzare, appunto, le scuole con iniziative, dibattiti e distribuzione di importanti materiali.
3. A tutto questo non ha corrisposto un’adeguata sensibilità complessiva nè una corretta percezione dell’entità del fenomeno. Ed anche questo, senza dubbio, ha contribuito alla invisibilità della mafia e all’indebolimento dell’azione di contrasto.
Ciò è dovuto a fattori molto complessi e variegati, che vanno dalla semplice indifferenza e sottovalutazione, fino al pregiudizio secondo il quale parlare troppo di presenze criminali in certe aree del Paese finirebbe per incrinare il buon nome di una città, di una regione o di un’istituzione.
E’ così che, mentre per altre relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia vi furono notevoli interessamenti editoriali, per quella relativa alle infiltrazioni nel nord la ricerca fu più complessa e paradossalmente si concluse con la pubblicazione da parte di un editore del sud.
Quando furono presentate le relazioni del comitato nominato dal Comune di Milano, le reazioni furono “indignate”; si ritenne, da parte di alcuni amministratori, che il quadro fornito fosse tale da incrinare il buon nome della “capitale morale” d’Italia e, peggio, della cosiddetta “Milano da bere”; un amministratore parlò addirittura di una “coltellata nella schiena”; un sindaco liquidò il lavoro del comitato asserendo che erano tutte fantasie ed ingenuità (“la mafia, a Milano non c’è proprio; mi sono persuaso, parlando con il questore, che Milano non è affatto una città mafiosa”). Si ammetteva, insomma (significativa un’intervista pubblicata sul “Giornale” del 5 agosto 1992), che a Milano potevano esserci alcuni personaggi mafiosi, ma non il fenomeno come tale e che insomma “un pericolo mafioso specifico” non era stato dimostrato da nessuno.
Opinioni personali? Forse; di fatto, la relazione conclusiva del comitato non fu mai pubblicata e l’iniziativa non ebbe alcun ulteriore seguito, così come inascoltate rimasero le indicazioni e le proposte formulate.
Quando il gruppo di lavoro della Commissione parlamentale venne a Milano e il presidente Violante tenne una conferenza stampa a conclusione degli incontri tenuti in Prefettura, su un quotidiano milanese del 25 ottobre 1993 si poteva leggere: “La mafia a Milano? Solo fantasie. Non è stata una buona pubblicità per Milano la relazione dell’Antimafia dopo le audizioni. Troppo drammatica la relazione; si sono trovati discordi anche alcuni delle forze dell’ordine”.
Quando tornò, con altro presidente, la Commissione Parlamentare Antimafia, a Milano, il 10 gennaio 1997, all’incontro non si presentarono né il sindaco né il Presidente della Regione, impegnati altrove, e mandarono soltanto dei sostituti.
E non si è trattato di episodi occasionali se è vero che nella relazione del 2001 della Commissione Parlamentare Antimafia, preseduta dall’On. Lumia, si poteva leggere che “la percezione nelle zone non tradizionalmente mafiose della presenza della criminalità organizzata continua a rimanere molto bassa, al punto che da amministratori locali ne viene contestata la stessa esistenza”; e la relazione aggiungeva che “nelle visite effettuate nelle regioni del nord si è avuta la conferma che all’allarme lanciato dai magistrati inquirenti e dai responsabili delle Forze dell’Ordine corrispondeva una generale sottovalutazione da parte degli amministratori locali e di responsabili di istituzioni economico-finanziarie”.
Qui si apre una grande finestra su una situazione davvero paradossale.
Il fenomeno è percepito da Magistratura e Forze dell’Ordine, che però sono costrette – per tante ragioni, non esclusa la mancanza di strutture e mezzi adeguati – ad intervenire soprattutto sul territorio, restando quasi impotenti di fronte alle pur certe attività illecite, sul piano economico-finanziario, che costituiscono la massima espressione della mafia invisibile; mentre nel campo più delicato e difficile manca una reale collaborazione da parte degli organismi preposti, quando addirittura non vi siano forme di resistenza passiva.
Per altro verso, la stessa società civile, pronta a plaudire alle operazioni in grande stile contro le organizzazioni mafiose, resta assente da tutto quel lavoro anche di conoscenza ed informazione, ma soprattutto di partecipazione, che dovrebbe aiutare a combattere i fenomeni più rilevanti e meno appariscenti.
Ben pochi sembrano ancora disposti a cogliere i segnali che ripetutamente sono stati indicati sia dal comitato del Comune di Milano nel 1991-92, sia dalla Commissione Parlamentare Antimafia a partire dalla relazione del gennaio 1994. Eppure, le operazioni bancarie sospette, i frequenti turn-over delle licenze commerciali, l’acquisizione di società in stato di decozione, gli improvvisi arricchimenti, il diffondersi di società finanziarie sospette anche per la formazione di un sistema concatenato di scatole cinesi, la diffusione - a livello sistematico – dell’usura, le infinite e variegate forme di riciclaggio e così via, se non sono proprio sotto gli occhi di tutti, rappresentano tuttavia indici rivelatori di un sistema illecito e distorsivo della stessa economia, sicuramente percepibile almeno ad alcuni livelli istituzionali, finanziari ed economici.
Significativa la recente polemica che l’ABI ha condotto contro alcune dichiarazioni del Presidente della Commissione Antimafia, che aveva denunciato la scarsità di segnalazioni di operazioni sospette da parte delle banche. A prescindere dalle ragioni e dai torti, sui quali non disponiamo di dati sufficienti per emettere giudizi, colpisce in sè il fatto di una polemica fra organismi che dovrebbero collaborare per combattere un nemico estremamente difficile ed agguerrito.
Un grande maestro milanese del diritto sosteneva paradossalmente che è una lotta quasi impari quella fra lo Stato e la criminalità organizzata, perchè quest’ultima è più duttile, più sensibile di fronte agli strumenti nuovi, in un certo senso più “intelligente”, rispetto al legislatore che arriva spesso in ritardo, che è stretto da vincoli burocratici, che non sempre è capace di predisporre tutti i mezzi e gli strumenti necessari per combattere fino in fondo la sua battaglia. C’è del vero, nel paradosso, perchè in realtà la mafia, che non è più (bisogna ricordarlo sempre) quella immortalata nei film, con la coppola e la lupara, è prontissima a percepire il nuovo, le possibilità offerte dalla libera circolazione, dall’abbattimento di molte barriere, dalla globalizzazione e dai nuovi strumenti informatici, mentre lo Stato stenta a mettere in campo quelle “intelligence” che sono necessarie per indagare sui patrimoni, sui movimenti di denaro, sugli appalti, sulle operazioni economiche illecite e così via; e soprattutto, trova poca collaborazione nella stessa società e poca sensibilità da parte dei cittadini. E questo non è attribuibile solo all’indifferenza ed alla sottovalutazione, ma riconduce a responsabilità più elevate, di chi non riesce a creare una vera cultura non solo dell’antimafia, ma, prima ancora, della legalità ed a mettere in campo una strategia complessiva e largamente condivisa.
Una strategia che dovrebbe comprendere sia l’impegno sul territorio contro i reati più gravi, da quelli più antichi a quelli più recenti, sia l’impegno intelligente e informato contro le attività meno appariscenti, più “invisibili”, ma non meno gravi, preoccupanti e pericolose.
Sosteneva Falcone che gli uomini possono cercare di scomparire, magari con lunghe latitanze, ma il denaro finisce necessariamente per lasciare qualche traccia, solo che la si sappia cogliere. Personalmente, ritengo che anche le latitanze di personaggi potenti della mafia si giustifichino poco (ma il discorso, sul punto, sarebbe troppo lungo); ma sono certo che nonostante le innovazioni tecnologiche e le nuove libertà di circolazione delle persone e del denaro, è tutt’altro che impossibile affondare le mani anche nel sottofondo, purché si sappiano cogliere i sintomi esterni del male, si sappiano leggere i bilanci e le operazioni finanziarie, si sappia, cioè, operare con gli stessi strumenti che le organizzazioni criminali utilizzano, ormai in modo assai disinvolto, soprattutto nelle regioni del nord Italia.
Ma per questo occorre anche sconfiggere indifferenze e sottovalutazioni, allontanare i pregiudizi, formare – fin dalle scuole – una cultura della legalità e dell’etica anche nell’economia; occorre cioè impegnare tutti gli organi dello Stato e tutte le istituzioni economiche, finanziarie e sociali non meno che tutti i cittadini. Su questo piano, grande potrebbe essere anche il contributo degli organi di informazione che – lasciando perdere gli aspetti più appariscenti e impressionistici di alcune vicende – sappiano documentare, informare, sensibilizzare, appoggiando gli sforzi degli organi dello Stato, ma anche contribuendo a creare quella cultura di cui più volte ho parlato. Basti un esempio: dagli “stati generali dell’antimafia” tenutisi lo scorso anno, è uscita una serie di proposte molto serie, tutte, comunque, degne di riflessione. In realtà, di quelle indicazioni e proposte ben poco è giunto al cittadino, mentre nessun dibattito si è aperto pubblicamente sulle tematiche prospettate. E’un segnale negativo, perchè non è così che si può realizzare quel cambio di marcia nell’ impegno contro le mafie, anche e soprattutto contro la mafia “invisibile”, che pur da tante parti viene auspicato e sollecitato.
Se è vero che, anziché farsi la guerra, i gruppi criminali hanno realizzato tacite intese, dando vita a nuove forme di criminalità integrata o ripartendosi i compiti, se è vero che sul territorio operano gruppi stranieri di vario tipo ma che si ispirano anche a modelli comportamentali non tradizionali, ed infine se è vero che la mafia, per alcuni versi soprattutto al nord, si è trasformata in una mafia dedita agli affari ed alle operazioni finanziarie, è evidente che occorre oggi, più che mai, un vero salto di qualità, da realizzare:
- nell’azione politica complessiva, che deve ispirarsi alla massima chiarezza ed efficacia, ma senza incoerenze, nel contrasto alla mafia;
- nella Commissione Parlamentare Antimafia, potenziata e sempre più resa indipendente dalle collocazioni politiche, e più credibile nella composizione;
- nel rafforzamento degli strumenti d’indagine sul territorio e delle strutture delle Direzioni Distrettuali Antimafia;
- nel potenziamento dell’azione di contrasto e di intelligence sul piano economico e finanziario;
- nel potenziamento della collaborazione da parte degli operatori economici e delle banche;
- nella forte sensibilizzazione degli organismi istituzionali, degli Enti Locali e della stessa opinione pubblica, rendendo evidente a tutti che se la rapina sotto casa fa paura, tutto ciò che avviene nel mondo dell’economia illecita, sommersa, criminale, è assai più pericoloso perchè mette a rischio lo stesso sistema economico del Paese, la sicurezza dei cittadini, i poteri dello Stato:
- nell’abbandono degli atteggiamenti altalenanti, delle “convivenze” possibili, dell’accettazione quasi rassegnata dell’ineluttabilità dei fenomeni, rafforzando invece le conoscenze e la cultura della legalità.
www.omicronweb.it