Ci sono molti esperti che si impegnano a discutere del futuro della conservazione dei beni artistici e monumentali. In un lungo articolo - che riporto integralmente sotto la foto - due studiosi analizzano quello che succede in Italia, e citano la nostra Certosa. E' emblematico che questo loro articolo nasca proprio dalla provocazione di Gianni Barbacetto, sulle pagine de "il Fatto Quotidiano", dove - con tono provocatorio - lanciava un grido d'allarme, chiedendosi che ruolo potesse avere l'allora Ministro delle Finanze Tremonti (il Governo Berlusconi era ancora in auge) nella gestione della Certosa di Pavia. Barbacetto avanzava anche una proposta - neanche tanto campata per aria - di far pagare una modesta somma per l'ingresso (accade già in tante chiese in Italia), gli introiti avrebbero lo scopo di dare una mano a difendere, gestire e restaurare la Certosa.
Gerardo De Simone e Emanuele Pellegrini, non condividono l'indiscriminato sfruttamento dei beni artistici, fanno un analisi del monitoraggio della spesa del Ministero dei Beni Culturali e, supportati anche da varie riflessioni, affermano che i soldi pubblici non manchino, ma che debbano solo essere ripartiti ed investiti in modo più oculato, che devono essere diretti verso il territorio utilizzandoli - con un’adeguata ripartizione dei fondi così ritrovati - per nuove assunzioni di personale tecnico (non amministrativo), per il finanziamento dei restauri.
Spero che chi dovrà prendere le future decisioni dia loro ragione. Resta solo da vedere chi sarà a prendersi questo onere di agire in modo efficace nella gestione dei bilanci e della ripartizione delle risorse. Qualora accadesse ciò si potrebbe disporre di somme non indifferenti. Loro si auspicano solo che le Soprintendenze non cedano - testualmente - "alle facili lusinghe degli 'eventi' e delle 'grandi mostre', dirottando fondi ed energie in kermesse effimere, spesso prive di spessore scientifico, fugaci fiere di vanità personali e interessi commerciali" ma che tutte le risorse recuperate siano impegnate nella “conservazione attiva” del nostri beni culturali.
Tutti, il mondo intero, ne sarebbe riconoscente e - a loro magari non piace - anche l'economia nazionale ne trarrebbe di sicuro beneficio. Gettare alle ortiche il patrimonio artistico italiano è un vero e proprio atto criminale.
Una parola sulle Soprintendenze
di Gerardo de Simone ed Emanuele Pellegrini
In un articolo apparso qualche mese fa su “Il Fatto Quotidiano” (Certosa di Pavia allarme nero, 29 settembre 2011), Gianni Barbacetto ha denunciato la gravissima situazione in cui versa la Certosa, un monumento la cui importanza non va certo sottolineata, tra «piccole sculture con le figure in marmo spezzate e portate via come souvenir», «strutture fatiscenti», intere aree «non visitabili».
Non vogliamo entrare nel merito specifico della conservazione della Certosa quanto piuttosto rimarcare che, nell’economia di questa documentata denuncia, in cui pur si citano i principali attori (il Demanio dello Stato, il Ministero del Tesoro e i frati), la Soprintendenza non è mai menzionata. Non già per segnalarne meriti o demeriti, ma solo quale naturale rimando all’istituzione che, sul territorio, ha la responsabilità della tutela del patrimonio culturale italiano, chiunque ne sia il proprietario (a maggior ragione se si tratta di un bene statale). Dunque quella parte dell’amministrazione statale che avrebbe il potere di intervenire per far sì che tale situazione possa essere se non corretta, almeno arginata, e comunque documentata.
Un’assenza che colpisce molto e crediamo non derivi da negligenza del giornalista.
In effetti viene da chiedersi quale sia la percezione che si ha, negli ultimi tempi (diciamo pure nell’ultimo decennio), della Soprintendenza come organo dell’amministrazione dello Stato. Non tanto da parte del mondo della cultura, e in particolare degli addetti ai lavori (archeologi e storici dell’arte), quanto piuttosto da parte della società civile. Se si dovesse condurre un’indagine statistica, magari con interviste sul campo, probabilmente la Soprintendenza verrebbe riconosciuta nella maggioranza dei casi in quell’ufficio in cui ci si imbatte, spesso in maniera sgradevole, quando si deve ampliare una casa, chiudere un terrazzo, aprire una finestra. Non più, quindi, le famose “Belle Arti”, cioè il presidio “prefettizio” dello Stato, deputato in primis a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico della Nazione, ossia di tutti i cittadini, a studiarlo per migliorarne la comprensione e di conseguenza la protezione stessa, bensì un ostacolo burocratico che limita libertà personali, una specie di proterva agenzia delle entrate di cui si subisce l’azione. E dalla cui azione si cerca di preferenza, molto italianamente, di scappare.
Tale percezione si può spiegare in molti modi, ma in particolare se si considera il recentissimo scivolamento del patrimonio culturale da strumento di civiltà, di cultura e di identità a merce, oppure – il che è assai peggio – a (presunto) freno allo sviluppo (?) dell’Italia, mentre contemporaneamente non cessa di ingrassare la sciocca retorica dei “beni culturali” come petrolio d’Italia. Di fatto, negli ultimi anni, il motivo per cui le Soprintendenze hanno spesso “bucato” le prime pagine dei quotidiani risiedeva nel loro impegno nel fronteggiare i ripetuti condoni che hanno minato la tenuta del patrimonio culturale italiano (paesaggio e beni culturali) e le insidie dei decreti milleproroghe, veri e propri omnibus legislativi, entro cui sovente sono state nascoste pratiche lesive dell’integrità del patrimonio nazionale. Tutto ciò ha di necessità ridotto gli organi di tutela a essere una sorta di appendice degli uffici urbanistici comunali, spesso anzi in conflitto con questo, a considerare, ad esempio, la disinvoltura con cui gli enti locali si sono mossi – e continuano a muoversi – nella concessione di più o meno lucrosi permessi di edificazione.
Eppure le Soprintendenze hanno in buona parte conservato quella caratura scientifica che comunque l’istituzione possiede, pur con le fisiologiche discontinuità, e hanno mantenuto l’impegno nell’azione di catalogazione, che è primaria per un’adeguata tutela, ben lungi dall’essere completata e aggiornata su tutto il territorio nazionale, ma che pure ha conosciuto episodi di ottimo livello come ArtPast e CulturaItalia, a dimostrazione del bene che si può comunque fare con finanziamenti adeguati e parimenti adeguata volontà politica. Una storia infinita questa della catalogazione, che non si esaurisce nel sempre imprescindibile lavoro sul territorio, bensì oggi comprende pure l’informatizzazione dei materiali posseduti nei ricchissimi archivi, documentari e fotografici, dei singoli uffici (per averne un’idea si veda la recente, documentata pubblicazione Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio, Venezia, 29 ottobre 2008, a cura di A.M Spiazzi, L. Majoli, C. Giudici, Crocetta di Montello (TV), 2010).
Converrebbe allora tentare un bilancio di questi istituti, ormai centenari e veri emblemi del sistema italiano di tutela, al contempo così avanzato e così disastrato. Capire cioè come sia mutata questa struttura dello Stato, soprattutto quali siano le innegabili, profonde differenze dalla “eroica” stagione degli anni Settanta e anche Ottanta, quando Soprintendenti di vaglia, perché storici dell’arte di primo livello, battevano a tappeto zone dimenticate d’Italia per recuperare alla conoscenza di tutti opere poco note e a rischio di dispersione o distruzione, sfornando pubblicazioni tutt’oggi imprescindibili. Interrogarsi cioè sul loro ruolo futuro; e soprattutto chiedersi quale sia la connessione con le facoltà universitarie che sarebbero i naturali bacini da cui drenare le forze necessarie al proseguimento del lavoro, cioè quelle di storia dell’arte e di beni culturali (con tutte le fluttuanti declinazioni presenti nei singoli atenei d’Italia). Giacché gli storici dell’arte, quegli stessi che quaranta o cinquanta anni fa erano cavalcasellianamente chiamati a controllare il patrimonio nascosto nelle pieghe del territorio, hanno visto interrotto, da almeno venti anni, uno degli sbocchi primi e preferenziali del proprio curriculum di studi, ossia proprio la Soprintendenza e il museo. Una connessione perfetta tra conoscenza e tutela, tra studio e protezione del patrimonio nazionale, che ha conosciuto una brusca frattura, i cui deleteri effetti si cominciano oggi a sentire con forza: mancanza di ricambio, carenza di personale, eccessiva burocratizzazione a discapito dei tecnici. Nonostante, ripetiamo una volta in più, la gretta litania dei “beni culturali petrolio d’Italia”, altamente offensiva per quelle legioni di archeologi e storici dell’arte preparati che si vedono costretti a dirottare le proprie competenze in altri settori, quando non a mortificarle del tutto.
È innegabile che ci sia stato un depotenziamento mirato o comunque indotto delle Soprintendenze, causato certo dalle politiche forsennate (consapevoli o brutalmente ignoranti) dei governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni, da iscrivere nella più generale cornice dell’indebolimento della via statale alla cultura. Allo stesso tempo, però, si ha come l’impressione che l’istituzione stessa abbia stentato a rinnovarsi e a trovare nuove energie, sia per rispondere a queste politiche dannose, sia per aggiornare la via italiana alla tutela con le sfide d’inizio secolo.
Si è ripetuto e si continua a ripete fino allo stremo, autorevolmente, che il personale delle Soprintendenze è vecchio, che l’età media dei funzionari supera i cinquantacinque anni, che andrebbero inserite nuove forze negli organici, che mancano i fondi anche per le banali spese di sopravvivenza burocratica: ma poi, in concreto, a questi alti lai non è mai corrisposta un’azione concreta, se non per sporadiche manifestazioni come il convegno dei Soprintendenti alla Certosa di Padula (9-10 settembre 2011), certo importante cenno di vita e vitalità.
Il concorso, un concorso – l’unico dopo decenni per l’assunzione di nuovo personale da inserire in pianta stabile negli organici della tutela – c’è pure stato: per le soprintendenze ai beni storico-artistici si sono banditi cinque – dicasi cinque – posti in tutto per gli storici dell’arte, e solo per alcune regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto e Umbria). Un concorso di cui peraltro è già stato messo a nudo il ridicolo dei criteri di selezione, con domande che con la storia dell’arte non avevano niente a che vedere, andando dalle coltivazioni in Bulgaria a quiz di logica da spiaggia. Non finisce qui: mentre i vincitori sono stati chiamati nel maggio scorso, gli idonei non sanno ancora di che morte dovranno morire, cioè se saranno chiamati, come si spera, oppure no. Se ne deduce, dunque, che non c’era tutto questo bisogno di nuove assunzioni, e che tutto può tranquillamente andare avanti così. In effetti a vedere in che stato è ridotto il patrimonio culturale italiano – dalla Certosa di Pavia al Palazzo Orsini di Tagliacozzo (di cui si discute in questo numero di “Predella”) alla Reggia di Carditello – , viene forse da pensare che la situazione necessiti di una rapida inversione di rotta.
Si stenta pertanto a capire quale sia la politica, se ce n’é una, di tutela, giacché è necessario nei beni culturali, come in qualsiasi altro settore dello Stato, contare su una programmazione di medio e lungo termine, che abbia bene evidenti gli obiettivi da perseguire. A controllare quanto è stato fatto, proprio in relazione alle Soprintendenze, si rende evidente quanto malgovernato sia questo comparto dell’amministrazione statale. Un solo esempio: è piuttosto recente l’apertura di due nuovi uffici, Brindisi-Lecce-Taranto (2004) e Lucca-Massa Carrara (2005). Al contempo tuttavia si affacciano anche le proposte di accorpare altri uffici, come le Soprintendenze ai beni architettonici e paesaggisti di Sassari e Nuoro (con Cagliari), o addirittura di sopprimerne alcuni (come la Soprintendenza ai beni storico-artistici di Trieste).
L’idea guida non può essere quella del risparmio delle risorse, perché se così fosse evidentemente non funzionerebbe solo in certe situazioni e in altre no, sia geograficamente che per settori scientifici (beni archeologici, beni architettonici e paesaggistici). Esistono allora dati o ricerche hanno mostrato esserci minore necessità di tutela in Sardegna o in Friuli? Esistono prove che quelle Soprintendenze non funzionano e devono essere accorpate? Siamo sicuri che un’adeguata tutela dipenda dal numero degli uffici e non piuttosto dalla loro efficienza? Senza considerare come questo continuo separare e unire uffici, causi inevitabili problemi nella gestione quotidiana nel lavoro e nella gestione di uno strumento fondamentale per la Soprintendenza come l’archivio.
Allo stesso tempo viene da chiedersi anche quali siano le responsabilità, senz’altro da individuare non per puntare l’ennesimo inutile dito, ma per capire quale parte dell’ingranaggio non funzioni, debba essere sostituito o semplicemente oliato. Per fortuna, trattandosi di amministrazione, si può fare affidamento su dati concreti, almeno dal punto di vista del personale e dei fondi impiegati. Per trovare queste responsabilità e garantire la correttezza dell’analisi, infatti, è proprio dai fatti concreti che bisogna partire, per poter derivare così un’idea complessiva e rigorosamente documentata, cioè condivisibile, non soggetta a processi interpretativi. I numeri, insomma, sono numeri.
Il sito del Ministero dei Beni Culturali offre un buon monitoraggio della spesa, con le indicazioni delle varie spese, perfettamente leggibile anche da chi non è aduso a confrontarsi con tabelle e formule. Un chiaro passo in avanti verso quella trasparenza così necessaria al funzionamento della macchina statale, e un invito alla partecipazione alla vita della res publica. Crediamo quindi che si possa discutere sui numeri, e giudicare anche le spese effettuate, tanto più in un momento in cui la severità nell’analisi dei conti pubblici deve emergere per far fronte a periodi di crisi economica che, in Italia, hanno visto l’assoluta penalizzazione del comparto culturale e formativo (scuola e università).
A considerare le urgenze, a partire dalla Certosa di Pavia, specialmente in questa stagione economica in bilico, non crediamo che i soldi pubblici manchino. Essi possono essere recuperati intanto all’interno del Ministero, cioè attraverso un’adeguata gestione della spesa corrente, a partire ad esempio dalla riduzione delle molte consulenze (451.000 euro lordi annui per i dieci “esperti e consulenti” del Ministro, cui si devono aggiungere “solo” i rimborsi spese – non quantificati – per il consigliere Giuliano Urbani), per riversarli invece sulla tutela attiva: assunzione di personale tecnico (e non amministrativo) per gli uffici periferici, finanziamento di restauri ecc. Poi proponendo un’adeguata ripartizione dei fondi rispetto all’intero bilancio statale. E qui tocca menzionare l’annoso problema della ripartizione delle voci di spesa del bilancio statale. La CGIL ha recentemente reso nota la curva discendente dello stato di previsione della spesa del Ministero dei Beni Culturali rispetto al totale della spesa statale: si passa dallo 0,39% del 2000 allo 0,23% del 2009, con un’ulteriore discesa prevista che arriva a toccare lo 0,19% nel 2011. Crediamo che lo Stato butti via i soldi in Ministeri di cui si stenta a capire la reale funzione, come quello per i rapporti con le regioni (sic), per l’attuazione del programma (sic), per i rapporti col parlamento (sic): invenzioni al limite del ridicolo se non fosse che in un momento di grave disagio succhiano risorse pubbliche, complicano la burocrazia, senza alcun beneficio per la società civile.
Vedremo quindi come si comporterà il nuovo governo Monti che in parte ha accorpato e tagliato questa inutile paccottiglia, in parte l’ha mantenuta (resta il Ministero per i rapporti col parlamento, c’è quello per la coesione territoriale (che è quello per i rapporti con le regioni unito a quello sul federalismo), quello per gli affari europei, e quello per l’integrazione e la cooperazione internazionale (ma non bastava, per questi ultimi, quello degli esteri?). Perché proprio una razionalizzazione della spesa, conseguenza di un adeguato riconoscimento degli obiettivi primari dell’azione politica, potrebbe essere un vero punto di partenza e di rilancio.
A patto che le Soprintendenze, specie quelle di punta, la smettano di cedere alle facili lusinghe degli 'eventi' e delle 'grandi mostre', dirottando fondi ed energie in kermesse effimere, spesso prive di spessore scientifico, fugaci fiere di vanità personali e interessi commerciali.
È doveroso invece che le somme risparmiate vengano messe a frutto, investite cioè nella fondamentale missione a cui sono chiamate le Soprintendenze che non è solo di vigilanza, ma di “conservazione attiva” del patrimonio culturale, preservazione dell’identità del territorio. In una parola dell’immagine e del futuro del paese: in questo sono più che evidenti le connessioni con l’universo della ricerca e della cultura, che permettono di considerare le spese in questo settore, oltre che doverose, un vero investimento per la qualità della vita pubblica e del futuro della nazione. Meglio allora dire che con la cultura non si mangia, e gettare giù la maschera, distruggendo le radici e il futuro d’Italia, che ripararsi dietro un ridicolo slogan sul presunto petrolio, continuando invece a non fare alcunché, cioè a distruggere radici e futuro d’Italia.
Obiettivi che tra l’altro, riguardando un settore cruciale per la vita della Repubblica italiana come il patrimonio culturale, non possono essere sottoposti a radicali mutamenti a seconda di chi sieda al governo. C’è la Costituzione a fare da guida. Tuttavia per riconoscere questi obiettivi di un’azione politica ci vuole una chiarezza di intenti e di programma. Ed è qui che si perdono i confini di un disegno politico complessivo, assolutamente necessario per proseguire nell’attività svolta sino a questo momento che ha contribuito alla conservazione del più ingente, prezioso e delicato pezzo del patrimonio italiano. Altrimenti si aprono quelle crepe entro cui sono lesti ad infilarsi agenti disgreganti, portatori di idee balzane come chiudere le Soprintendenze (manifestazioni di «uno Stato nemico dei cittadini») e far adottare i monumenti da istituzioni, fondazioni o gruppi di cittadini (come recita l’editoriale di Marco Romano sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 2011 cui ha risposto Tomaso Montanari su «Saturno blog» il 27 dicembre successivo).
In realtà tale politica, per l’appunto così necessaria, non esiste: è una continua navigazione a vista, sia che il ministro di chiami Galan, Bondi, Rutelli, Buttiglione, Urbani. Oppure Ornaghi, tecnico o non tecnico che sia.