google.com, pub-1908550161261587, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Pensieri sparsi: Cultura e Coltura

venerdì 30 marzo 2012

Cultura e Coltura

Cultura è l'insieme di conoscenze che formano la personalità ed affinano le capacità di un individuo.

Coltura è la coltivazione di piante e l'allevamento di animali.

I termini "cultura" e "coltura" spesso vengono confusi, anche se oggi le definizioni sono distinte nettamente: la cultura riguarda la sfera intellettuale, la coltura si riferisce ai campi.

L’origine delle due parole ha la stessa origine etimologica: in latino cultura deriva da cultus, participio passato di còlere, cioè coltivare. Quando Cicerone parlava di “cultura animi" si riferiva al patrimonio tramandato di un sapere tradizionale, che consente all’uomo di sfuggire alla condizione barbara dei non emancipati.

Come il cibo è l'elemento basilare per il nutrimento del corpo, la cultura è fonte di nutrimento per la mente e per l'arricchimento conoscitivo. La cultura è cibo a tutti gli effetti.

Può la CULTURA produrre i propri specifici "frutti" se non viene "COLTIVATA"? Si può fare a meno del cibo per il corpo? E di quello per la mente?

Il giardino interno della Certosa di Pavia, coltivato dai monaci
La messa a reddito dei beni culturali - Il Fatto Quotidiano
Anche Giorgio Napolitano ha aderito al “manifesto per la cultura” del Sole 24 ore. E nel messaggio inviato in occasione della XX Giornata Fai di Primavera, il Capo dello Stato non solo ha sposato la linea di fondo del “manifesto” (quella, tautologica, per cui la ‘cultura fattura’), ma ne ha esplicitato e radicalizzato il nucleo più controverso. «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione – ha scritto il Presidente – bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».
Sfruttare fino in fondo il patrimonio storico-artistico: difficile trovare una formulazione più estrema della cosiddetta dottrina del petrolio d’Italia, o dei giacimenti culturali, nata nell’Italia craxiana degli anni ottanta del secolo scorso. Ed è anche difficile trovare un’accezione del verbo ‘sfruttare’ che, per quanto metaforica, sia compatibile con la funzione costituzionale del patrimonio (che è quella di produrre non sviluppo economico, ma cultura). Secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, sfruttare vuol dire «privare un terreno degli elementi nutritivi», «usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico», «depredare una regione delle sue risorse naturali», «usare in modo esclusivo», «vivere alle spalle di qualcuno», «usare o abusare di qualcuno o qualcosa». Ciascuna di queste accezioni richiama alla nostra mente centinaia di aggressioni, morali e materiali, al patrimonio storico e artistico della nazione perpetrate in nome della sua messa a reddito. Ed anche l’accezione meno negativa («ricavare il massimo profitto da ciò che si ha a disposizione») è davvero poco edificante, se accostata, non so, a Michelangelo o alla Valle dei Templi.
Con questo messaggio, Napolitano ribalta dunque la dottrina quirinalizia sul patrimonio, che nel 2003 era stata messa a punto (su frequenze, quelle, perfettamente costituzionali) dal filologo classico ed economista Carlo Azeglio Ciampi: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità»
Lo «sfruttare fino in fondo» di Napolitano converte il patrimonio in un mezzo piegato al fine del reddito, e dunque smentisce questo illuminatissimo discorso, precipitandoci in un mercatismo senza se e senza ma che appare perfettamente in linea con la politica del governo che il Capo dello Stato sta, virtualmente, guidando.
«Fino a quando gli oggetti dell’istruzione pubblica verranno considerati come gioielli, come diamanti dei quali non si gode se non per il prezzo del loro valore?». Lo scrive Antoine Quatremère de Quincy. Nel 1796.